A riguardo di Marx e della questione della crisi Roberto Fineschi scrive:
«La crisi. Anche questo è un tema per cui in realtà Marx è stato sulla bocca di tutti dato che le teorie ortodosse non hanno una spiegazione della crisi. Se voi studiate nei manuali di macroeconomia leggete di crisi frizionali, crisi di riassestamento, rigidità che possono essere fluidificate con interventi esterni che però non implicano ciclicità strutturali per cui la crisi è un elemento costante, ricorrente della riproduzione sociale; quindi quando ci si trova di fronte a crisi come quella del 2007, 2008, in parte ancora in atto, i nostri economisti ufficiali non sanno che dire. Cito spesso che su Rai due Giuliano Amato spiegava la crisi con la teoria della sovrapproduzione di Marx, su Rai due alle 14,30! Non aveva un teorico ortodosso che gli dicesse perché potesse esserci una crisi così clamorosa e deflagrante che spezzava in maniera così dirompente le dinamiche della riproduzione. E Giuliano Amato spiega con eleganza, su Rai due, che c’è la crisi, perché Marx ha ragione, perché c’è la sovrapproduzione, perché il modo di produzione capitalistico tende a produrre a prescindere dal bisogno solvente, cioè a prescindere da chi può pagare, quindi alla fine ingolfa il mercato con una quantità di merci non vendibili, crolla il prezzo, la speculazione finanziaria non può rispondere a questa dinamica oggettiva».
Se posso riassumere, la metterei così: l’essenza della produzione capitalistica, implicando la
produzione senza riguardo ai limiti del mercato, conduce alla crisi. Il che è
vero nella misura in cui è fuorviante.
Infatti, tutti gli “esperti” ritengono, chi
in un modo e chi in un altro ma nella sostanza tutti d’accordo, che la
contraddizione centrale dell’economia capitalistica sia da rintracciarsi nel
rapporto tra produzione e consumo. Pertanto essi individuano la causa della
crisi nella sovrapproduzione
di merci determinata dalla loro impossibilità a realizzarsi in seguito
al sottoconsumo, vale a dire alla povertà e alla limitatezza di consumo delle
masse. Un tempo si era giunti a teorizzare persino che gli schiavi moderni
consumino meno di quanto producono per loro mera propensione psicologica alla
parsimonia, quasi per dispetto (*).
Tra parentesi, anche la cosiddetta teoria di sproporzionalità
appartiene al novero delle concezioni che individuano la causa della crisi
nella sola sovrapproduzione
di merci. Per i sostenitori della teoria della sproporzionalità, la
crisi dell’economia capitalistica deriverebbe da uno sviluppo sproporzionato
dei diversi settori della produzione sociale.
Pertanto, pur essendo sottoconsumo e
sproporzione concetti diversi, nella sostanza rinviano alle stesse cause e agli
stessi effetti della crisi e agli stessi velleitari rimedi (**). Vediamo di
fare un po’ di chiarezza.
Nel modo di produzione capitalistico la
contraddizione tra produzione e consumo assume effettivamente una rilevanza di
primo piano, poiché la crisi di sovrapproduzione è anche “crisi di
sottoconsumo”, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un
aspetto, non la necessità (nelle facoltà di economia non si studia la
dialettica ritenendola faccenda di “filosofi”, cioè di perditempo).
Le contraddizioni operanti nella sfera del
consumo, infatti, sono indotte da quelle interne alla sfera della produzione.
Di conseguenza la genesi
della crisi va ricercata nella produzione di plusvalore, e non nella sua realizzazione.
Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella
circolazione, conduce inevitabilmente alle interpretazioni della crisi come,
appunto, crisi di sovrapproduzione o sottoconsumo. Questa tesi alimenta l’illusione che sia
possibile risolvere la crisi intervenendo sulla sfera del mercato e degli
investimenti, in definitiva agendo sul movimento del denaro, dei tassi e sulla
fiscalità (Piketty e altri).
In realtà, la crisi di sovrapproduzione,
individuata nello squilibrio del rapporto tra produzione e consumo (o di
sproporzione tra le diverse sfere produttive), ha la sua reale causa, in ultima istanza, nel meccanismo
stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione del plusvalore per il plusvalore (vedi qui). Se non si
afferra tale concetto, Marx è inutile, sia in originale che in traduzione!!!
La produzione capitalistica tende
continuamente a superare le proprie contraddizioni, ma riesce a superarle
unicamente e momentaneamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi
limiti su scala nuova e più alta.
Scolpitevelo in testa: avendo il capitale come suo scopo
l’accrescimento illimitato della produzione, ossia la produzione come fine a se
stessa, pone lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del
lavoro permanentemente in conflitto con il suo fine ristretto, la
valorizzazione del capitale esistente.
*
Scrive ancora Fineschi: «[…] si torna a
parlare Karl Marx, Keynes, Schumpeter, tutti quegli autori che alla fine hanno
messo in dubbio che un’armonia prestabilita riportasse tutte le cose al suo
posto. Nella teoria di Marx la crisi è strutturale, il modo di produzione
capitalistico necessariamente, ciclicamente produrrà crisi, niente di più
normale: certo che c’è la crisi perché il modo di produzione capitalistico
funziona così».
Le difficoltà di valorizzazione si
manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole, quando
il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario salto
di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione. Ma per
sovrapproduzione, non s’intende semplicemente – come sostengono Amato e tutti
gli altri – sovrapproduzione di merci, ma sovraccumulazione di mezzi di
produzione e sussistenza in quanto questi possano operare come capitale, e dunque il fenomeno della
sovrapproduzione riguarda anzitutto la sovrapproduzione
di capitale (benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre
sovrapproduzione di merci).
Tale distinzione non è leziosa, non è fine a
se stessa se vogliamo capire non solo come funziona il capitalismo, ma la sua
reale dimensione nel processo economico e storico.
Storicamente il modo di produzione
capitalistico è un mezzo potente per lo sviluppo della forza produttiva
materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, ma esso vive al
tempo stesso la contraddizione ineludibile tra questo suo “compito storico” e i
rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.
Ed è proprio su questo punto che cade ogni
illusione borghese, laddove si ritenga che tale compito di sviluppo della forza
produttiva materiale e di creazione di un mercato mondiale possa proseguire
indefinitamente. Per altri versi è illusione che il “capitalismo crollerà
spontaneamente” o “sarà superato” a tempo debito e senza particolari traumi, di modo da dover praticare una collaborazione col nemico di
classe sul piano del riformismo.
Proprio per tali motivi, Keynes e Schumpeter
non c’entrano nulla con Marx, nemmeno di striscio. Partono da presupposti
diversi e arrivano a conclusioni opposte a quelle di Marx.
*
Veniamo alla crisi finanziaria del 2008.
Essa apparentemente non ha nulla o poco a che fare con la sfera della
produzione, bensì con quella della circolazione, del movimento del denaro,
reale o fittizio che esso sia. Inizialmente scoppia con la bolla dei famosi
mutui, con il crac della Lehman Brothers e simili.
Dev’essere ben chiaro come la crisi non sia
un fenomeno passeggero dovuto a fattori “esterni”, contingenti (come
strombazzano gli ideologi della borghesia), ma un elemento strutturale che ha
le sue basi nel modo di produzione stesso (come dice anche Fineschi).
Il grafico mostra con chiarezza che gli
investimenti fissi lordi a livello mondiale subiscono un crollo verticale
proprio in coincidenza del famigerato 2008, e come la curva risalga leggermente
solo nel 2012 e poi nel 2014, mentre poi tende nuovamente ad inabissarsi.
Questo significa che nell’ultimo decennio si sia investito nella produzione
sempre di meno, salvo sporadici e deboli sussulti, e come dunque la base
produttiva tenda a restringersi.
Si tratta pertanto, di là del fenomeno
speculativo che denota spettacolarmente gli eventi, di crisi di
sovrapproduzione assoluta di capitale e di caduta del saggio generale del
profitto. L’abnorme trasferimento di capitali dalla sfera produttiva a quella
speculativa, con relative periodiche bolle e bollicine, ne costituisce la
conferma.
(*) Se le reali cause della crisi fossero
legate semplicemente alla domanda, basterebbe favorirla. Come dava da intendere
anche quel furbacchione di Keynes, il quale negò quanto avevano sostenuto Say e
Ricardo, e cioè che l’offerta crea la domanda. È necessario un “modello” più
aderente alla realtà, scrisse, che prenda atto dello squilibrio
domanda-offerta. Ed è a questo punto che nasce la famosa “legge psicologica”,
corroborata, come si conviene nei casi in cui la parola non basta, da una serie
di: D1 + D2 = φ (N), dove φ è la funzione di offerta complessiva …
(**) Se il capitalismo si definisce per la
propria incapacità di assicurare un crescita armonica della produzione sociale,
il socialismo, da parte sua, dovrà, necessariamente, distinguersi per la
propria capacità di autoregolazione: l’esistenza o meno di una economia
pianificata diventa la linea di demarcazione fra due “opposti” modi di
produzione, essendo la pianificazione l’unico strumento in grado di imporre,
per scelta soggettiva (di classe) e quindi coercitivamente, uno sviluppo
proporzionato ai diversi settori produttivi e conforme alle esigenze di
consumo.
Sennonché si dimentica che la contraddizione
valore / valore-d’uso ha un carattere dirompente e che, pertanto, un’economia
basata sulla produzione di valori di scambio è del tutto impianificabile. Ci si
trova di fronte (gli esempi storici in tal senso non mancano) al fenomeno
apparentemente inspiegabile della crisi di sovrapproduzione in talune sfere
produttive e a penurie e carestie devastanti in altre sfere.
E ciò dipende, ab ovo, da come si sono deformati
e fraintesi – semmai siano stati presi in considerazione – gli schemi di
riproduzione marxiani del II Libro de Il Capitale, in tutti i tentativi di
utilizzarli come strumento di legittimazione di regimi ancora fondati sullo
sfruttamento di una classe da parte di un’altra.
bisogna sottolineare che oggi la pianificazione sarebbe piuttosto agevolata rispetto al passato visto che siamo tutti in rete. ma il capitalismo è un rapporto sociale e non un computer. sulla questione c'è ancora da lavorarci
RispondiEliminaChiaro che debbono cambiare i stramaledetti rapporti sociali. Per far questo i computer servono a poco
Eliminaauri sacra fames: avidità, cupidigia, bulimia. La metastasi che distruggerà l’umanità.
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