Gli
indici del mercato azionario di Wall Street sono destinati a terminare l’anno a
livelli quasi record, in netto contrasto con la fine del 2018, quando hanno
vissuto il loro peggior dicembre dal 1931, all’apice della Grande Depressione.
Da
una mia vecchia agenda riprendo alcuni dati sul mercato azionario di Wall
Street del 2001, cioè ben prima della crisi, e li confronto con quelli odierni.
Il 3 gennaio di quell’anno il Dow Jones segnava 10.646 punti e 2.291 il NASDAQ.
Venerdì scorso il Dow Jones fissava a 28.645 e 8.770,98 il NASDAQ. Standard
& Poor, il paniere azionario formato dalle 500 aziende statunitensi a
maggiore capitalizzazione, il 27 scorso era a 3.240 punti, il 3 gennaio 2001 a
1.335. Dall’inizio di quest’anno il suo aumento è stato di circa il 29 per cento.
Insomma,
chi ha investito in quel mercato azionario nel 2001 e non si è fatto prendere
dal panico nel 2008, può aver tranquillamente triplicato il proprio capitale
senza muovere un dito (anzi proprio per quello), cosa che non succede sicuramente
con le obbligazioni statali (*).
L’escalation
dei mercati finanziari, tuttavia, non è espressione di salute economica, se
consideriamo che le principali banche centrali del mondo hanno pompato migliaia
di miliardi di dollari e di euro nel sistema finanziario, senza tacere delle
crescenti disuguaglianze sociali, il peggioramento dei salari e degli standard
di vita per milioni di persone. Tutto ciò è l’espressione contraddittoria della
crisi non più solo ciclica ma storica del sistema.
Queste
iniezioni di migliaia di miliardi nel circuito finanziario, che premiavano (e
premiano) le stesse banche e istituzioni finanziarie le cui sconsiderate attività
speculative avevano scatenato la crisi del 2008-09, furono giustificate con la
necessità di salvare l'intero sistema, sostenendo che quando la crisi sarebbe
passata tali politiche monetarie “non convenzionali” sarebbero cessate e ci
sarebbe stato un ritorno alla “normalità”.
Nel
corso dell'ultimo decennio è diventato chiaro che questo momento non arriverà
mai perché, come un tossicodipendente, l’intero sistema finanziario globale è
diventato completamente dipendente dall’offerta di denaro ultra-economico. Dopo
di che si ha un bel dire contro l’intervento degli Stati nell’economia.
Insomma, mi permetto di rilevare un accenno di contraddizione tra il predicare
e il razzolare.
Per
dare ciò che spetta per esempio alla Federal Reserve americana, bisogna dire
che tentò almeno di limitare l’offerta, con quattro aumenti dei tassi d’interesse
nel 2018, a seguito di una leggera ripresa negli Stati Uniti e nell’economia
globale e ne ha prefigurato anche di più per il 2019. Si è persino impegnata a
iniziare a liquidare le sue massicce partecipazioni di attività finanziarie che
erano aumentate a oltre 4 trilioni di dollari da soli 800 miliardi nel 2007
(**).
La
violenta reazione di Wall Street a queste misure alla fine del 2018, ricordiamo
i contrasti col presidente Trump, ha fatto sì che anche queste misure limitate
fossero messe da parte. La debolezza di fondo dell’economia statunitense e la
fragilità del sistema finanziario è posta in luce se consideriamo che il debito
societario è salito a quasi 10 trilioni di dollari (equivalente al 47 per cento dell'economia totale) e che circa un terzo delle obbligazioni societarie
sono valutate a BBB (appena sopra la spazzatura).
Questo
tipo d’interventi sono stati duplicati anche dalla Banca centrale europea, con
il famoso “bazooka”. Anche per il 2019 la Bce ha ulteriormente ridotto gli
interessi di base (i tedeschi, dal loro punto di vista, hanno ben ragione di
costernarsi) e ha ripreso gli acquisti di attività, che vanno ad aggiungersi al
patrimonio di 2,6 trilioni di euro già detenuto.
Come chiunque può notare, questo
tipo d’interventi delle banche centrali porta come conseguenza rendimenti negativi sul mercato obbligazionario dei titoli di Stato, e
ciò è l’espressione di una bolla finanziaria in un’area del mercato che in
precedenza aveva fornito una certa stabilità. Infatti, fino alla crisi
finanziaria del 2008 e anche un po’ dopo, i titoli di Stato erano il paradiso
tradizionale per gli investitori. Un decennio dopo, la loro natura è
sostanzialmente cambiata. In qualsiasi crisi futura, il debito sovrano sarà un
propagatore di rischio piuttosto che un rifugio, e non mi riferisco solo
all’Italia, anche se il nostro paese è tra i più esposti. Attualmente i
rendimenti ai minimi storici offrono rischi, non più solo virtuali, senza
rendimento (la corsa all’oro di cui si sente parlare, ha anche questa
componente).
Il
rischio concreto è che i problemi di merito creditizio dei titoli di Stato di qualsiasi paese possano essere
rapidamente trasmessi in tutto il sistema finanziario, posto che le perdite
sulle posizioni obbligazionarie creano naturalmente una pressione di vendita che
porta all’aumento dei costi del debito, come ben sappiamo noi italiani.
Pertanto,
se il mercato azionario prima o poi farà sentire all’intero condominio
economico finanziario un botto da bombola di gas, quello dei titoli di Stato
non sta messo meglio e anzi potrebbe fungere da innesco. Intanto godiamoci i
botti di capodanno.
(*)
I mercati obbligazionari hanno tradizionalmente funzionato come un'arena per
investimenti virtualmente privi di rischi con un tasso di rendimento
relativamente basso. Le loro operazioni hanno costituito la base per gli
investimenti dei fondi pensione e delle compagnie assicurative che devono
bilanciare le loro passività a lungo termine con attività sicure.
Quanto
al rendimento negativo: ha raggiunto livelli record in molti paesi, si verifica
quando il prezzo di un’obbligazione sul mercato è così elevato che se un
investitore lo acquistasse e lo mantenesse fino alla scadenza, subirebbe una
perdita. Naturalmente, a tali condizioni, gli investitori non acquistano obbligazioni
per mantenerle alla scadenza. Lo fanno prevedendo che i prezzi aumenteranno ancora
e saranno in grado di vendere i titoli ottenendo una plusvalenza (chi fomenta
lo spread, anche in area politica e governativa, potrebbe avere anche tale
interesse). Al contrario, se i tassi d’interesse aumentano e il prezzo dell’obbligazione
scende (i due si muovono nella direzione opposta), gli investitori subiranno
una perdita.
(**)
La Fed non ha ufficialmente ripreso l’azione di “pompaggio”, ma, come ho
scritto in un precedente post, è intervenuta in modo aggressivo nel mercato
finanziario a breve termine a seguito di un picco del tasso di pronti contro
termine overnight lo scorso settembre. Il mercato dei pronti contro termine è
fondamentale per il funzionamento quotidiano del sistema finanziario, poiché
gli istituti finanziari prendono in prestito denaro durante la notte per
chiudere la partita alla fine della tornata di negoziazione. In condizioni
normali, il tasso d’interesse pronti contro termine segue il tasso base della
Fed, cioè molto basso, ma a metà settembre aveva raggiunto il 10 per cento. Da
allora la Fed è intervenuta per centinaia di miliardi di dollari.
Il bilancio della Fed "continua il suo epico aumento", con un aumento di $ 101,5 miliardi al mese da settembre, rispetto agli $ 80 miliardi al mese durante il QE3. "È difficile non immaginare questa influenza sui prezzi delle azioni"
RispondiEliminaIl 2008 sarà stato solo un petardo
Eliminacomunque ci sta una imminente risalita dei rendimenti dei bond EU, almeno per breve periodo. ragioni tecniche si sommano alla lagarde che "sta cercando di imparare il tedesco"
RispondiEliminaScusa se mi ripeto: sarà un decennio molto molto molto interessante
Eliminauna sola precisazione: quelli che stanno messi peggio sono i bond non-finanziari americani, la "sana" economia reale
RispondiEliminae giustamente...che si impari la modernità !
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