martedì 16 ottobre 2018

Per la cruna

È un ristoro per la mente leggere un libro del grande maestro che risponde al nome di Peter Brown. Il titolo originale, Through the eye of a needle, che Einaudi traduce correttamente con Per la cruna di un ago, rimanda al celebre versetto evangelico che tutti conosciamo e che fin da piccoli ci ha tolto il sonno: era fin troppo evidente che un cammello non poteva infilarsi nell’occhiello di un ago, che semmai sarebbe stato necessario un ago gigantesco o viceversa un cammello microscopico. E perché mai un cammello sarebbe stato interessato ad attraversare proprio quel forellino? Si poteva eccepire in sede catechistica che Marco e Luca sostenevano una cazzata? Ognuno coltivava il proprio dubbio per sé.

Poi, quasi adulti, venimmo a sapere che probabilmente questa paradossale iperbole era dovuta a un errore di traduzione, laddove la parola aramaica gamal può significare sia “cammello” e sia “corda”. La spiegazione veniva accolta con un gran sospiro di sollievo, non se ne poteva più di trattenere in corpo un simile dubbio. Il presunto traduttore greco avrebbe quindi semplicemente scelto il senso sbagliato del termine, trasformando l'iperbole moderata di una corda che si tenta invano di infilare nella cruna di un ago nell'iperbole estrema del cammello contorsionista che ci ha impressionato da bambini. Non sapremo mai con certezza se sia andata così, certo è che l’iperbole del cammello ha sortito un successo clamoroso rispetto all’eventuale versione con canapo o corda (*).



Brown, ben avveduto, si ferma alla cruna dell’ago, ma per l’Einaudi non basta, deve metterci del suo, se non altro per completezza. Si sa mai che quella volta a catechismo qualcuno fosse assente causa scarlattina. Nella sovraccoperta scrive in grandi caratteri da oculista: “Gesù insegnò ai suoi seguaci che è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio”. Gesuiti si nasce, ed essi lo nacquero.

Ad ogni buon conto, a pagina 677, Brown racconta un episodio storico che stuzzica e premia la curiosità del lettore. Ci racconta di uno scisma memorabile che vide protagonisti da un lato papa Simmaco (498-514) e dall’altro tale Laurenzio, un ecclesiastico non meno scafato. Il conflitto tra Simmaco e Laurenzio portò a una spaventosa guerra tra bande durata quattro anni. Nelle strade della città – scrive Brown – si susseguivano scontri armati tra le fazioni rivali, che portavano spesso all’uccisione dei preti più in vista di ciascun schieramento.

A fare da sfondo a questo scisma – precisa Brown – vi era una Roma ormai disgregata in una vacillante confederazione di quartieri. La città era punteggiata di isole in cui gruppi di eleganti edifici, sia ecclesiastici sia aristocratici (siamo ben dopo il sacco di Alarico del 410 e quello di Genserico del 455, a conferma di quanto sostenevo nel post di domenica scorsa, sebbene prima della guerra gotica e dell’assedio di Totila del 546), spiccavano in mezzo a un paesaggio urbano tentacolare e degradato. Queste isole di residenze ben curate – prosegue Brown – costituivano le basi del potere dei rappresentanti rivali del clero e dei loro alleati laici. La tenace opposizione a papa Simmaco da parte dei prelati che sostenevano Laurenzio dimostra quanto fosse impossibile dare per scontato il controllo che un vescovo era in grado di esercitare sul proprio clero (soggiungo: mutatis mutandis, la situazione complessiva non era molto diversa da oggi, fatta forse eccezione per le famose buche stradali).

In situazioni del genere, ieri come sempre, la chiave del potere, in tal caso episcopale, era il denaro. Simmaco – racconta Brown – superò la tempesta perché si dimostrò in grado di flettere a proprio vantaggio il muscolo finanziario della ricchezza della chiesa. Sembra che i preti a lui fedeli ricevessero paghe tre volte superiori a quelle dei preti alleati con l’avversario. Come dominus della ricchezza della sua chiesa, Simmaco riuscì a imporsi come dominus delle chiese di Roma.

Considerazione: la chiesa ci ha sempre presentato un aspetto paradossale della propria ricchezza: la sua non è da considerarsi come la ricchezza di un qualsiasi altro plutocrate, essa è una ricchezza di cui la chiesa non è proprietaria ma soltanto la gerente, e l’amministra in nome di coloro che non possiedono nulla, vale a dire i poveri. La chiesa è un non proprietario che presiede un cospicuo patrimonio di non persone! È sempre lei che decide chi può passare per la cruna di un ago.


(*) Ritengo questa spiegazione molto comoda ma improbabile: Chi può far passare un elefante per la cruna di un ago? (Talmud Babilonese, Baba Mezi’a 38b).

2 commenti:

  1. salve, ma non va dimenticato un detto siciliano: "cu sparte ave a megghiu parte". Che spiega il nepotismo del passato della Chiesa, e il alto affaristico attuale. Per ora sommerso ma che di tanto in tanto emerge.

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