Perché occuparsi di Oliviero Diliberto? È una domanda
che andrebbe dapprima posta al Corriere della sera che pubblica una sua intervista. Per quanto mi riguarda
l’intervista di Diliberto rivela il motivo reale del fallimento della sinistra
riformista.
Domanda dell’intervistatore: «Che cosa c’è di giusto
nel comunismo?».
Risposta: «In astratto, l’uguaglianza. Che figura
anche nell’articolo 3 della Costituzione».
In astratto? L’art. 3 della costituzione? In astratto
un corno. Marx, per citare un nome a caso, non parla dell’uguaglianza in
astratto. Il presupposto per l’uguaglianza sociale sta nel superamento della
società di classe, in prima istanza nell’espropriazione
degli espropriatori.
L’ineguaglianza sociale poggia anzitutto sul fatto
che una classe di proprietari (siano essi capitalisti diretti, fondi
speculativi, burocrati di Stato, ecc.) si appropria del frutto del lavoro della
classe lavoratrice, motivo per il quale la ripartizione dei beni di consumo è
in ogni caso conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione.
Quanto all’art. 3 della costituzione, esso non
accenna nemmeno a queste cose, e del resto non possiamo pretendere che nella
società capitalistica il diritto possa essere più elevato della configurazione
economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato (*).
Pertanto, per venire ad un’altra domanda-risposta, i
poveri non votano per il Pd, non perché – come vuol far credere Diliberto – «Non
si possono tenere insieme Gramsci, Kennedy, Luther King e don Milani», ma
perché questi farabutti, oltre a Marx, hanno
raso al suolo la lotta di classe dei proletari!
Quanto a che cosa ci sarebbe di sbagliato nel
comunismo, secondo la domanda dell’intervistatore, Diliberto risponde: «Tante
cose. In primis il presupposto che tutto debba essere di proprietà dello
Stato».
Diliberto accoglie la domanda e risponde come un
reazionario da salotto, invece di rovesciare la domanda: che cosa c’è di
sbagliato nel capitalismo?
Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo
di produzione, la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione
del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Ed è precisamente questo che sta sotto gli occhi di
tutti, ormai.
Quanto al fatto che in una società comunista tutto debba essere di proprietà
dello Stato, si tratta di una menzogna.
Ecco che cosa scrive Marx ne Il Capitale:
«Ogni
capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione
ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si
sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di
lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento
metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro
utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione
mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato,
mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale
e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del
regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del
capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di
trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione,
dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento […]».
La
proprietà privata dei mezzi di produzione, poiché esattamente
di questo si tratta e non dell’alloggio dove abitiamo o dell’auto che abbiamo
in garage, non esiste quasi più, se
non in forme marginali (leggere qui per farsene un’opinione basata sui “numeri”).
Marx ed Engels mettevano in chiaro questa questione
strumentalmente agitata dalla propaganda borghese:
«Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà
privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i
nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto
che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una
proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della
proprietà dell’enorme maggioranza della società».
E ancora:
«Quel che
contraddistingue il comunismo non è
l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della
proprietà borghese.
Ma la
proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione
della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi
di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.
In questo
senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione
della proprietà privata. Ci si è rinfacciato, a noi comunisti che vogliamo
abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e
personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà,
attività e autonomia personale. Proprietà frutto del proprio lavoro,
acquistata, guadagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto
cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c’è bisogno che l’aboliamo noi, l’ha
abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell’industria».
Chiaro,
cialtroni di ogni risma?
(*) «In una
fase più elevata della società comunista [successiva al socialismo come periodo
intermedio tra la società capitalistica e il vero e proprio comunismo], dopo
che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione
del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo
che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno
della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono
cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza
collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte
giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue
bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni !
(Critica al programma di Gotha)».
Non foss'altro, l'intervista all'ex onorevole Diliberto a qualcosa è servita. Grazie.
RispondiElimina(Certo che se li scelgono proprio a modino i "comunisti" da intervistare, nevvero)
non per nulla apro così: È una domanda che andrebbe dapprima posta al Corriere della sera che pubblica una sua intervista.
Eliminadai "marxisti" mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io
“L’uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benché principio e pratica non si accapiglino più, mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.
RispondiEliminaNonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.
Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale.” Marx, critica del programma di Gotha, traduzione edizione lingue estere Mosca.
Questo Marx diceva a proposito dell’uguaglianza e del diritto borghese che Diliberto lo sconosca non deve sorprenderci. D’altra parte, non casualmente questo figuro è stato ministro della giustizia. Ma quello che è grave e che questo signore scambi un articolo costituzionale borghese per un fondamento scientifico per l‘uguaglianza comunista. In realtà buona parte del movimento legato ai fu rifondaroli discende dai cascami intellettuali della tradizione di Togliatti. Questa tradizione culturale fin dagli anni ‘ 60 si era rifugiata sul piano ideologico nel migliore dei casi in una visione ideologica cattolica, oggi infatti questi figuri inneggiano a un ex gesuita, al momento papa della chiesa cattolica. Dimenticano che Marx aveva già bollato il comunismo cristiano equiparandola in quello di stampo medievale (vedi manifesto del partito comunista) -
Dove cascano totalmente le braccia è quando analizza le cause della sconfitta dei partiti che discendono dalla tradizione e pratica comunista italiana. Non c’è traccia di un qualsivoglia pensiero e soprattutto vi è solo la spocchia accademica, è tal il figuro e se ne vanta, di considerarsi superiore al resto della società. A quanto pare il suo unico merito è la salvaguardia della scrivania di Togliatti al ministero!