Il lavoro è sempre più residuale, schiavitù “a
perdere”, escluso dai benefici dell’aumentata produttività, eppure si troverà
sempre il rotto in culo a dire che i salari sono ancora troppo alti (non certo
il suo sudatissimo ma pingue stipendio).
Nei talk show e in ogni luogo dove si fabbrica la
propaganda ci ricordano che la popolazione invecchia, le nascite crollano, il
welfare è in affanno, mentre cresce il divario tra “riforme” promesse e realizzazioni.
La ricetta è sempre la stessa: fare bancomat sulle
pensioni e le prestazioni sociali. Se ci fate caso chi parla di queste cose non
ha mai lavorato un solo giorno nella sua vita, se non a chiacchiere, e
tantomeno sotto padrone.
Tutto ciò, tra l’altro, ha effetti dissolventi sui
legami sociali e la solidarietà di classe, cosicché alle vecchie alienazioni e
insoddisfazioni se ne aggiungono sempre di nuove e universali per la felicità di giornalisti e sociologi che avranno ben modo di pontificare e guadagnare sulle
tensioni sociali e politiche derivanti da questi rapidi mutamenti.
Che la realtà capitalistica presenti problemi di
sovracapacità produttiva e di sovraccumulazione che non possono trovare
soluzione effettiva e stabile, nonostante tutte le tattiche per stimolare nuovi
bisogni, spesso fittizi, e programmate obsolescenze, è faccenda che passa in cavalleria. Per
il resto si predica una più equa redistribuzione pur continuando a razzolare
sui soliti noti.
*
Il computer con il quale scrivo di queste cose è
prodotto in Cina, ma il suo prezzo è realizzato da una multinazionale
americana: la Foxconn guadagna un saggio del profitto modesto, mentre la Apple
realizza la maggior parte del plusvalore e del sovraprofitto risucchiato nella
vendita.
Questo semplice fatto la dice lunga sui reali
rapporti di forza e sulla lotta in atto, su un confronto tra potenze sempre più
aspro e aperto, che può assumere casualmente
un’escalation incontrollabile e dagli esiti apocalittici. Risposta: «ci abbiamo
il “ponte” lungo, perciò non rompere l’anima con 'sti teoremi».
E allora, se non altro, prendetevi lo sfizio d’indovinare
chi scrisse queste parole:
«Quando
l’accumulazione di ricchezze non rivestirà più un significato sociale
importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci
liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente
angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le
qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla
motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, è
distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita,
sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante,
una di quelle propensioni a metà
criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido
allo specialista delle malattie mentali. Saremo, infine, liberi di lasciare
cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative
alla distribuzione della ricchezza, e alle ricompense e penalità economiche,
che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per sé sgradevoli e
ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del
capitale.»
La soluzione in nota (***).
*
In un mondo inondato di liquidità, come ci ricorda il
FMI, i flussi di capitale eccedente trovano limiti spaziali e di redditività, né
potrebbe essere altrimenti, poiché l’assorbimento di capitale oltre un certo
limite è impossibile. Come diceva il più cospicuo perditempo del XIX secolo, il
limite al capitale è il capitale stesso.
Si tratta di tendenze in forte accelerazione che
dimostrano come l’attuale sistema di proprietà, di appropriazione e
distribuzione della ricchezza non è compatibile con la realtà sociale e le
urgenze che essa esprime, e come il connubio tra gli Stati e la finanza non sia
in alcun modo soggetto a un controllo democratico.
Scriveva a tale riguardo il perditempo di cui sopra: «In certe sfere [il capitale] stabilisce il monopolio e
richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia
finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di
progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome;
tutto un sistema di frodi e d’imbrogli che ha per oggetto la fondazione di
società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il
controllo della proprietà privata» (III, 27).
Queste gigantesche imprese dedite essenzialmente alla
speculazione e all’accumulazione di denaro, muovono somme di miliardi a
velocità elettronica, in cui il capitale costante è in proporzioni così enormi rispetto
al capitale variabile che tale rapporto non incide necessariamente sul
livellamento del saggio generale del profitto. E questa, come osservava Marx, è
una delle cause che si oppongono alla caduta del saggio generale del profitto,
ma si presenta anche, prima facie, come
semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione (*).
Insomma, il modo di produzione attuale non si pone
solo contro il lavoro, bensì contro tutti, contro l’umanità intera. I rapporti
capitalistici, da forme di sviluppo delle forze produttive, si sono convertiti
con rapidità in oggettivi limiti all’ulteriore sviluppo umano (**). Raggiunta
la massa critica delle contraddizioni, sarà inevitabile l’esplosione della
protesta sociale su una scala inedita per estensione e radicalità.
(*) «Facendo
astrazione dalle società per azioni — che sono l’annullamento dell’industria
privata capitalistica sulla base del sistema capitalistico stesso, e
distruggono l’industria privata a misura che esse si ingrandiscono e invadono
nuove sfere di produzione —, il credito permette al singolo capitalista o a
colui che è tenuto in conto di capitalista, di disporre completamente, entro
certi limiti, del capitale e della proprietà altrui, e per conseguenza del
lavoro altrui. La possibilità di disporre del capitale sociale che non gli
appartiene gli permette di disporre del lavoro sociale. Il capitale stesso che
si possiede in realtà oppure nell’opinione del pubblico, diventa soltanto la base
per la sovrastruttura creditizia. […]
Tutte le misure, tutte le spiegazioni ancora più o meno accettate all’interno
del modo di produzione capitalistico, qui scompaiono».
(**) Un terzo dei bambini del paese più ricco del
mondo, gli Usa, vive in povertà e spesso in ambienti malsani, non di rado
soffrendo la fame e l’avvelenamento da piombo, e si vede negato l’accesso a
servizi sociali elementari e a opportunità d’istruzione. La signora Botteri, a
piè di canone Rai in quel di New York, di queste cose non ci dirà mai una sillaba.
(***) J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, il Saggiatore, 2011, p. 281.
Mi permetto di correggerle la fine del terzo periodo: forse non hanno lavorato sotto padrone (e ho qualche dubbio), sicuramente per i padroni.
RispondiEliminaAlessandro
ottima osservazione
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