domenica 31 luglio 2016

Divide et impera. Letture inattuali


A scuola, nel libro di storia, al massimo trovavi una mezza paginetta dedicata ai Vespri siciliani, ma ben difficilmente s’accennava, in seguito, ai Fasci siciliani, che certamente non furono, dopo l’Unità, un fatto secondario per quanto riguarda la più vasta regione italiana e i moti proletari che la percorsero degli ultimi anni dell’Ottocento, culminando in stragi come quella di Caltavuturo del 20 gennaio 1893 (tredici morti e decine di feriti). Né, in generale, vi si rintracciano riferimenti al lavoro minorile. Vorrei ricordare un’altra strage, avvenuta alla miniera La Mintina il 10 giugno 1886, dove morirono picconieri e carusi.

Chi erano i picconieri e i carusi? Furono descritti con esattezza e con uno stile da antologia da un giornalista allora molto noto e poi, come sempre accade in questi casi, dimenticato dopo la sua morte:

A un certo punto, mentre attraversavamo la montuosa regione che separa Campobello dalle zolfare, vedemmo in lontananza un ragazzo di nove o dieci anni, basso e robusto, che fuggiva per la campagna brulla, inseguito a duecento metri di distanza da un uomo senza berretto e dalle vesti bianche di zolfo, che per correre meglio si era levato le scarpe e con esse minacciava il fuggitivo con atti di ira feroce. È un picconiere – ci dissero i contadini – che cerca di ripigliarsi un caruso scappato. Se lo prende, lo concia per le feste! Son cose che succedono qui tutti i giorni.




Succedono tutti i giorni, ma sono cose barbare, che non dovrebbero essere tollerate in paesi civili. […] I carusi, com’è noto, sono generalmente ragazzi dagli 8 ai 15 o 18 anni, che trasportano a spalla il minerale dello zolfo, dalle profonde gallerie alla superficie, arrampicandosi su per gli strettissimi pozzi. I picconieri, cioè gli uomini che coi picconi staccano il minerale nelle gallerie, si procurano uno o più carusi mediante una anticipazione ai genitori dei ragazzi di una somma che varia dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Preso così come una bestia da soma, il caruso appartiene al picconiere come un vero schiavo: non può essere libero finché non ha restituito la somma predetta, e siccome non guadagna che pochi centesimi al giorno, la sua schiavitù dura per molti anni. Egli è maltrattato dal padre che non può liberarlo a dal picconiere che ha interesse di sfruttarlo il più lungamente possibile.

“Ma fermate quel picconiere!” – gridammo a quelli del Fascio. Alcuni soci lo raggiunsero infatti e lo fermarono. Ma dopo una breve discussione vedemmo che lo lasciavano andare. “È nel suo diritto – ci dissero quando tornarono a noi – il caruso gli appartiene”. “Quando si tratta di qualche scapaccione – ci disse un caruso che faceva parte della nostra comitiva – sono cose da nulla. Il male è quando il picconatore adopera il bastone. La settimana scorsa il caruso Angeleddu, di anni tredici, fu ucciso dal suo picconiere con otto bastonate. “E il picconiere non fu arrestato?” “Non li arrestano mai. Chi s’incarica dei carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le autorità sono morti sempre di morte naturale. Poco tempo fa nella miniera Ficuzza un altro caruso morì in seguito ad un calcio nello stomaco”.

Tirammo innanzi molto tristi. Alle tre e mezza giungemmo alla miniera detta la Mintina, dove il 10 giugno 1886 un improvviso franamento del terreno uccise nelle gallerie 142 (dico centoquarantadue) fra picconieri e carusi. In una depressione del terreno trovammo da un lato alcuni forni dove si purifica il minerale, circondati da cataste del minerale stesso. Qua e là si vedevano delle specie di nicchie di muratura: le aperture dei pozzi. Davanti ad esse stavano dei ragazzi dai nove ai quattordici anni, completamente nudi, e dei picconieri, egualmente in costume adamitico, con una sola pezzuola sostenuta da uno spago sulle parti genitali. Questi gruppi di ragazzi e di adulti dalla pelle bruna, che spiccavano sul terreno riarso e brullo, non parevano italiani, ma africani o indù (*).

Un classico esempio di come le classi proprietarie sappiano mettere gli uni contro gli altri i loro schiavi per succhiarne il massimo profitto e tenerli a bada.

Adolfo Rossi fu un personaggio straordinario e poliedrico come pochi. Nacque nel 1857 a Valdentro, una località che ora fa parte del comune di Lendinara (Pd) ma che nel periodo austriaco, nel 1857 appunto, era giurisdizione di Fratta Polesine, dove c’è Villa Badoer del Palladio, e dove poi ebbe i natali Giacomo Matteotti. Le condizioni economiche della famiglia di Rossi erano precipitate alla morte del padre. Divoratore di libri e autodidatta, fu dapprima impiegato alle poste, poi emigrato negli Usa, dove fece molti mestieri e infine redattore tuttofare del più famoso quotidiano italiano d’America: Il progresso italo-americano. Rientrato in Italia, portò nella stampa italiana un’esperienza e uno stile che pochi potevano vantare. Come giornalista godette di una vasta notorietà nell’ultimo decennio dell’Ottocento e di molta considerazione. Sua la denuncia della insensata avventura africana al tempo del governo Crispi, laddove non in astratto ma recandosi tre volte in Eritrea, girando palmo a palmo, raccontò la situazione reale, cosa che gli costò l’espulsione da parte delle autorità militari. Nel 1901 entrò alle dipendenze del neo istituito Commissariato generale per l’emigrazione compiendo fondamentali missioni di studio sulle condizioni degli emigranti all’estero. Fu il primo ispettore viaggiante dell’emigrazione nominato dal Commissariato. Nel 1908 passò nei ranghi della diplomazia e fu inviato a reggere il Consolato italiano a Denver, nel Colorado. Successivamente fu console in Argentina, a Santa Fe, e poi ad Assuncion, in Paraguay, da dove fu promosso nel 1919 a Buenos Aires in qualità di ministro plenipotenziario. Nel 1921 lo colse improvvisamente la morte a 63 anni.

Una più esaustiva biografia si può leggere nel libro curato da Giampaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (1857-1921). Malgrado il titolo, questo libro non riporta le cronache del Rossi dedicate alla situazione italiana, bensì le relazioni – di valore assoluto – da lui scritte sulla condizione degli immigrati italiani in Brasile, nell’Africa del sud, negli Stati Uniti.

(*) Il testo integrale del Rossi, L’agitazione in Sicilia: Inchiesta sui fasci dei lavoratori, è oggi reperibile – sul mercato dell’usato – nelle edizioni La Ziza, Monreale, 1988. Sul mercato antiquario è disponibile, a modico prezzo però stampata con stile gotico, l’edizione tedesca, che ebbe molta diffusione: Die Bewegung in Sizilien im Hinblick auf die letzten Verurteilungen, Dietz, Stuttgart, 1894. Sull’inchiesta del Rossi cfr. Francesco Renda, I fasci siciliani, Einaudi, 1977, pp. 211-216.





4 commenti:


  1. beh, mi sembra che le condizioni dei carusi siciliani non fossero molto diverse da quelle dei loro coetanei inglesi...

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    1. se lei ha letto ciò che dedica Marx al tema, sulla base dei resoconti degli ispettori di fabbrica inglesi, direi che la condizione dei carusi è, se possibile, anche peggiore

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  2. Lendinara (Ro) e non (Pd)

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