A
scuola, nel libro di storia, al massimo trovavi una mezza paginetta dedicata ai
Vespri siciliani, ma ben difficilmente s’accennava, in seguito, ai Fasci
siciliani, che certamente non furono, dopo l’Unità, un fatto secondario per
quanto riguarda la più vasta regione italiana e i moti proletari che la
percorsero degli ultimi anni dell’Ottocento, culminando in stragi come quella
di Caltavuturo del 20 gennaio 1893 (tredici morti e decine di feriti). Né, in
generale, vi si rintracciano riferimenti al lavoro minorile. Vorrei ricordare
un’altra strage, avvenuta alla miniera La Mintina il 10 giugno 1886, dove
morirono picconieri e carusi.
Chi
erano i picconieri e i carusi? Furono descritti con esattezza e con uno stile
da antologia da un giornalista allora molto noto e poi, come sempre accade in
questi casi, dimenticato dopo la sua morte:
A un certo punto, mentre attraversavamo la montuosa regione che separa
Campobello dalle zolfare, vedemmo in lontananza un ragazzo di nove o dieci
anni, basso e robusto, che fuggiva per la campagna brulla, inseguito a duecento
metri di distanza da un uomo senza berretto e dalle vesti bianche di zolfo, che
per correre meglio si era levato le scarpe e con esse minacciava il fuggitivo
con atti di ira feroce. È un picconiere – ci dissero i contadini – che cerca di
ripigliarsi un caruso scappato. Se lo prende, lo concia per le feste! Son cose
che succedono qui tutti i giorni.
Succedono tutti i giorni, ma sono cose barbare, che non dovrebbero essere tollerate in paesi civili. […] I carusi, com’è noto, sono generalmente ragazzi dagli 8 ai 15 o 18 anni, che trasportano a spalla il minerale dello zolfo, dalle profonde gallerie alla superficie, arrampicandosi su per gli strettissimi pozzi. I picconieri, cioè gli uomini che coi picconi staccano il minerale nelle gallerie, si procurano uno o più carusi mediante una anticipazione ai genitori dei ragazzi di una somma che varia dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Preso così come una bestia da soma, il caruso appartiene al picconiere come un vero schiavo: non può essere libero finché non ha restituito la somma predetta, e siccome non guadagna che pochi centesimi al giorno, la sua schiavitù dura per molti anni. Egli è maltrattato dal padre che non può liberarlo a dal picconiere che ha interesse di sfruttarlo il più lungamente possibile.
“Ma fermate quel picconiere!” – gridammo a quelli del Fascio. Alcuni soci
lo raggiunsero infatti e lo fermarono. Ma dopo una breve discussione vedemmo che
lo lasciavano andare. “È nel suo diritto – ci dissero quando tornarono a noi –
il caruso gli appartiene”. “Quando si tratta di qualche scapaccione – ci disse
un caruso che faceva parte della nostra comitiva – sono cose da nulla. Il male
è quando il picconatore adopera il bastone. La settimana scorsa il caruso
Angeleddu, di anni tredici, fu ucciso dal suo picconiere con otto bastonate. “E
il picconiere non fu arrestato?” “Non li arrestano mai. Chi s’incarica dei
carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le autorità sono morti sempre
di morte naturale. Poco tempo fa nella miniera Ficuzza un altro caruso morì in
seguito ad un calcio nello stomaco”.
Tirammo innanzi molto tristi. Alle tre e mezza giungemmo alla miniera detta
la Mintina, dove il 10 giugno 1886 un improvviso franamento del terreno uccise
nelle gallerie 142 (dico centoquarantadue) fra picconieri e carusi. In una
depressione del terreno trovammo da un lato alcuni forni dove si purifica il
minerale, circondati da cataste del minerale stesso. Qua e là si vedevano delle
specie di nicchie di muratura: le aperture dei pozzi. Davanti ad esse stavano
dei ragazzi dai nove ai quattordici anni, completamente nudi, e dei picconieri,
egualmente in costume adamitico, con una sola pezzuola sostenuta da uno spago
sulle parti genitali. Questi gruppi di ragazzi e di adulti dalla pelle bruna,
che spiccavano sul terreno riarso e brullo, non parevano italiani, ma africani
o indù (*).
Un classico esempio di come
le classi proprietarie sappiano mettere gli uni contro gli altri i loro schiavi
per succhiarne il massimo profitto e tenerli a bada.
Adolfo Rossi fu un
personaggio straordinario e poliedrico come pochi. Nacque nel 1857 a Valdentro,
una località che ora fa parte del comune di Lendinara (Pd) ma che nel periodo
austriaco, nel 1857 appunto, era giurisdizione di Fratta Polesine, dove c’è
Villa Badoer del Palladio, e dove poi ebbe i natali Giacomo Matteotti. Le
condizioni economiche della famiglia di Rossi erano precipitate alla morte del
padre. Divoratore di libri e autodidatta, fu dapprima impiegato alle poste, poi
emigrato negli Usa, dove fece molti mestieri e infine redattore tuttofare del
più famoso quotidiano italiano d’America: Il
progresso italo-americano. Rientrato in Italia, portò nella stampa italiana
un’esperienza e uno stile che pochi potevano vantare. Come giornalista godette
di una vasta notorietà nell’ultimo decennio dell’Ottocento e di molta
considerazione. Sua la denuncia della insensata avventura africana al tempo del
governo Crispi, laddove non in astratto ma recandosi tre volte in Eritrea,
girando palmo a palmo, raccontò la situazione reale, cosa che gli costò l’espulsione
da parte delle autorità militari. Nel 1901 entrò alle dipendenze del neo
istituito Commissariato generale per l’emigrazione compiendo fondamentali
missioni di studio sulle condizioni degli emigranti all’estero. Fu il primo
ispettore viaggiante dell’emigrazione nominato dal Commissariato. Nel 1908
passò nei ranghi della diplomazia e fu inviato a reggere il Consolato italiano
a Denver, nel Colorado. Successivamente fu console in Argentina, a Santa Fe, e
poi ad Assuncion, in Paraguay, da dove fu promosso nel 1919 a Buenos Aires in
qualità di ministro plenipotenziario. Nel 1921 lo colse improvvisamente la
morte a 63 anni.
Una
più esaustiva biografia si può leggere nel libro curato da Giampaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle cronache di
Adolfo Rossi (1857-1921). Malgrado il titolo, questo libro non riporta le
cronache del Rossi dedicate alla situazione italiana, bensì le relazioni – di
valore assoluto – da lui scritte sulla condizione degli immigrati italiani in
Brasile, nell’Africa del sud, negli Stati Uniti.
(*) Il testo integrale del
Rossi, L’agitazione in Sicilia: Inchiesta
sui fasci dei lavoratori, è oggi reperibile – sul mercato dell’usato – nelle
edizioni La Ziza, Monreale, 1988. Sul mercato antiquario è disponibile, a
modico prezzo però stampata con stile gotico, l’edizione tedesca, che ebbe
molta diffusione: Die Bewegung in
Sizilien im Hinblick auf die letzten Verurteilungen, Dietz, Stuttgart,
1894. Sull’inchiesta del Rossi cfr. Francesco Renda, I fasci siciliani, Einaudi, 1977, pp. 211-216.
RispondiEliminabeh, mi sembra che le condizioni dei carusi siciliani non fossero molto diverse da quelle dei loro coetanei inglesi...
se lei ha letto ciò che dedica Marx al tema, sulla base dei resoconti degli ispettori di fabbrica inglesi, direi che la condizione dei carusi è, se possibile, anche peggiore
EliminaLendinara (Ro) e non (Pd)
RispondiEliminagrazie. so ben io i motivi del lapsus ...
Elimina