Nonostante
le banche centrali abbiano portato a zero il costo del denaro e inondato il
sistema finanziario di liquidità (con il rischio più che certo di nuove bolle),
l’economia non si riprende e a mancare sono soprattutto gli investimenti
privati. Sui motivi della crisi degli investimenti produttivi sarebbe
necessario scomodare Marx e la teoria della caduta tendenziale del saggio diprofitto. Figuriamoci se qualche economista si prende la briga di farlo:
Piketty ha ammesso di non avere letto Marx, e quanto agli altri si tratta solo
di chiacchieroni che ignorano totalmente che cosa abbia effettivamente scoperto
il maggior critico dell’economia politica.
Molti analfabeti s’azzardano ancora a dire che il capitalismo di Marx non è quello odierno,
mettendo in luce con tale affermazione di non aver mai nemmeno sfogliato
l’opera marxiana, non parliamo poi di comprensione del suo metodo d’indagine.
Per esser sintetici, schematici, didascalici, vorrei dire bruschi, è appena il
caso di rilevare che per Marx il suo oggetto d’indagine è “il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di
scambio che gli corrispondono”, e non l’Inghilterra che pure, nella sua
epoca, era di questo oggetto la “sede classica”. Certo, essa è presa in
considerazione da Marx nella costruzione della sua teoria, poiché essa rappresenta
la forma più sviluppata del fenomeno che egli considera; ma, nella Prefazione
alla prima edizione (luglio 1867) de Il
Capitale, critica dell’economia politica, Marx mette in chiaro che:
«In sé e per sé, non si tratta del
grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle
leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di
tali tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità. Il paese
industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato
l'immagine del suo avvenire.»
In
altri termini, ciò che interessa a Marx
è il modo di produzione capitalistico in generale, le sue leggi e le sue tendenze, e non, invece, una sua forma
determinata ad un qualche stadio del suo divenire.
Tuttavia
non si può più perdere tempo andando appresso a queste cose.
*
Nel
primo dopoguerra, a risollevare le sorti dell’Italia, uscita stremata dal
conflitto, furono gli aiuti americani dell’ERP (compresi i massicci
investimenti in dollari) e alcune semplici ma efficaci misure di politica
economica del governo De Gasperi e del ministro Einaudi. Anzitutto l’apertura alle esportazioni, alla
quale si oppose – può sembrare oggi un paradosso – la Confindustria; la svalutazione della lira sul dollaro,
dunque sull’oro che faceva agio e conseguentemente su tutte le altre monete. Il
cambio passò da poco più di 225 a quello di 626 lire (che si mantenne per decenni).
Inoltre si può citare anche la totale libertà concessa al padronato di
licenziare (la Fiat mandò a casa 20mila maestranze, soprattutto quelle
sindacalizzate, quadri e simpatizzanti del PCI-PSI).
Quella
svalutazione competitiva fu quanto mai benefica per le esportazioni nazionali e
non ebbe significative ripercussioni sul piano della condizione dei salariati,
i cui consumi erano – già dall’epoca fascista – a livelli di mera sussistenza e
spesso al di sotto. Il prezzo stracciato della forza-lavoro permise di
riassorbire, in pochi anni, la disoccupazione. Tale svalutazione operata sul
cambio ufficiale ebbe effetti decisivi sul mercato libero (quello più
largamente praticato) laddove il rapporto toccava anche le mille lire. In altri
termini si prese atto di una realtà, e invece di opporvisi ostinatamente (come
si fa oggi per altri temi) difendendo un cambio ufficiale insostenibile, si
scelse opportunamente di adattarsi alla congiuntura del mercato limitando i
danni e anzi traendone dei benefici.
Oggi,
invece, una svalutazione di tali dimensioni, o anche più contenuta, ottenuta
con un’eventuale ritorno a una moneta nazionale, avrebbe effetti devastanti su
salari e pensioni (svalutazione strisciante che per questa via già avviene in vigenza dell’euro), dunque tra l'altro anche sui consumi interni. Mettere i nostri
salari in competizione, più di quanto già non avvenga, non dico con quelli
extra-europei ma già con quelli rumeni, ungheresi, serbi, eccetera, si
rivelerebbe una scelta scellerata e insostenibile sul piano della tenuta
sociale.
Sia ben chiaro, tra l’altro, e lo dico per inciso, che se sono state fatte delle riforme in questo paese, esse riguardano segnatamente le normative che consentono il supersfruttamento del lavoro!
Sia ben chiaro, tra l’altro, e lo dico per inciso, che se sono state fatte delle riforme in questo paese, esse riguardano segnatamente le normative che consentono il supersfruttamento del lavoro!
È
cambiato completamente il quadro economico nazionale e internazionale. Una
svalutazione monetaria avrebbe sì degli effetti positivi sulle nostre
esportazioni (le quali peraltro – tenuto conto della contingenza – restano, in rapporto alle importazioni, positive al netto della spesa energetica), ma non
innescherebbe alcun reale e soprattutto duraturo ciclo virtuoso per l’economia.
Bisogna
tener conto delle profonde modificazioni intervenute nella divisione
internazionale del lavoro e sulla strutturata dall’organizzazione produttiva
globale. Il quadro internazionale a tale riguardo è molto cambiato. Il Medio
Oriente e l’Africa restano ancora zone di estrazione delle materie prime, però l’Asia
ha cambiato volto ed è divenuta la “fabbrica del mondo”, mentre l’Europa e Stati Uniti
incontrano forti difficoltà a continuare a essere le aree in cui vendere le
merci prodotte.
Le
cause della difficoltà italiana ad adattarsi a questo quadro internazionale
sono dovute in non piccola parte alla peculiarità delle sua classe dirigente
(posto che oggi ne esista realmente una degna di tale nome), la cui arretratezza
va ricercata nel contesto storico-sociale nel quale si è formata, laddove si
ravvisa un forte rapporto con la politica alimentato dal clientelismo, dalla
corruzione e dal parassitismo. Di conseguenza la struttura produttiva messa in
piedi risente dei pochi capitali investiti, e ciò dipende innanzitutto dal
fatto che la maggior parte dei profitti è sempre rimasta tesaurizzata invece di
prendere la via dell’innovazione e della ricerca.
E
a tale riguardo è nota la quota troppo alta di piccole e medie imprese a fronte
di pochi grandi gruppi, peraltro a controllo familiare, forti di posizioni di
monopolio/oligopolio grazie alla vicinanza con la politica; la fortissima
presenza dello Stato nell’economia, con la proprietà diretta di banche e società;
il capitalismo di relazione, i famosi patti di sindacato, tra i quali Rcs e
dunque una fetta importante della stampa, il ruolo di Mediobanca, il
‘bancocentrismo’, peculiarità italiana, laddove per reperire capitali da
investire si sottoscrivono prestiti con l’obbligo di acquistare azioni o
obbligazioni della banca stessa invece di rivolgersi sul mercato azionario.
Questa
situazione in parte è stata superata e in buona parte non ancora, com’è
evidente dalla capitalizzazione della Borsa milanese, tra le più basse
d’Europa. Soprattutto permane irrisolta la questione forse più decisiva a
riguardo dello sviluppo complessivo del paese, ossia la questione meridionale,
con una divaricazione tra Nord e Sud che si fa sempre più netta, giunta ad
un grado di severità ormai irreversibile. Basti pensare all'assenza
di una rete dei trasporti adeguata per stabilire una vera interazione con il
resto del paese e con l’estero. E anche ciò che si è realizzato dal punto di vista
infrastrutturale più generale è stato fatto spesso male e ciò che ci si propone
di fare giunge in ritardo di mezzo secolo almeno. Ed è fin troppo nota poi la
collusione della politica e delle istituzioni, a tutti i livelli, con la
criminalità organizzata.
Ora
si tende a scaricare le responsabilità del ritardo e delle sopraggiunte
difficoltà sull’euro e sulla UE, segnatamente sulla Germania. E invece l’Europa
e l’euro si presentavano come occasioni uniche, fattori decisivi per accelerare
il passo delle riforme strutturali (vere, non solo annunciate), ma troppi
interessi si sono frapposti, a cominciare da quell’imprenditoria abituata a
tenere il culo al caldo. Ed eccoci a soffrire la competizione su scala globale,
sofferenza che si evidenzia ben prima della crisi.
Con
la crisi, poi, ci si accorge che il tempo è scaduto, che le difficoltà per
riorganizzarsi sono enormi. E, del resto, che cosa si sceglie di fare? Delle
confuse e contraddittorie riforme dell’assetto istituzionale allo scopo di offrire
più potere all’esecutivo e creare così le premesse – almeno si dice – per una
più forte e decisa politica riformista e per dare dimensioni adeguate e una
svolta più moderna, cioè rivolta al mercato globalizzato, all’asfittico
capitalismo nazionale.
Tuttavia,
se e quando sarà realizzata una riorganizzazione complessiva della struttura economica
e delle imprese italiane (che procede di per sé anche se lentamente e grazie,
paradossalmente, alla crisi), non andranno perciò stesso a soluzione i gravi
problemi sociali, primo tra tutti quello della disoccupazione. I nuovi
equilibri creati dalla globalizzazione e le nuove tecnologie stanno emarginando
sempre più il bel paese dai processi di trasformazione del capitalismo globale.
Stiamo diventando sempre più, con le altre nazioni del Sud Europa, un paese di
nuova emigrazione e di mera sopravvivenza.
Come dicevi, a proposito di terrorismo segnalo questo molto significativo:
RispondiEliminaPTV news 25 luglio 2016 – Nizza e Monaco: il doppio testimone
http://www.pandoratv.it/
Sì, lo pensavamo tutti, ma averne la certezza è pesante.
ciao,g
accanto all' ineguale sviluppo economico vi è l'ineguale sviluppo politico; sopra entrambi, in stretta relazione, vi è quello sociale
RispondiElimina"Ora si tende a scaricare le responsabilità del ritardo e delle sopraggiunte difficoltà sull’euro e sulla UE, segnatamente sulla Germania"
RispondiEliminalo scrivi ma non ci credi ed invece é vero. siamo in pieno capitalismo che sta collassando e quindi i più furbi, e i tedeschi lo son sempre stati, metton sotto quelli che, appunto capitalisticamente, chiedono "più europa!" pur non comprendendoci una mazza. ti ricordo che la cosidetta moneta unica é stato un obiettivo del potere crucco già dai tempi hitleriani.
franco valdes piccolo proletario di provincia
I dati di Unimpresa con Bankitalia alla fine del 2015 :
RispondiEliminala capitalizzazione delle spa italiane è aumentata di 81,2 mld. (+17,78 % ) ma gli investitori stranieri arrivano a 276,7 mld. In Borsa il 51% del capitale è in mano a soci stranieri.
Tra i padroni le imprese contano il 19,27%, mentre le famiglie pesano per il 12,39%.
Lo Stato ha un ruolo ridotto, ha titoli per 13,7 mld e sono il 2.56% del totale.
Euro sì/euro no : il confronto fra economisti veri e sedicenti è serrato, la massa come sempre subisce. Resta il fatto che alcune note e noterelle tra le norme di Maastricht e Lisbona sono tutt'altro che paritetiche.
Forse Adenauer, De Gasperi e Schuman erano in buona fede, ma mescolare mediterraneo e oltralpe era azzardato anche all'epoca.
Diventeremo il b&b dell'Europa.
"Oggi, invece, una svalutazione di tali dimensioni, o anche più contenuta, ottenuta con un’eventuale ritorno a una moneta nazionale, avrebbe effetti devastanti su salari e pensioni"
RispondiEliminatutti gli studi finora effettuati mostrano il contrario. Un'uscita dall'euro non comporterebbe presumibilmente un'inflazione maggiore del 30 %. Da dove le viene questa certezza ? D'altronde che una svalutazione del 20-30 % non possa avere effetti devastanti è questione di puro buon senso.