La
cosa più difficile da far comprendere a un proletario salariato è la sua reale
condizione di schiavo. Il fatto per esempio che gli siano riconosciuti alcuni
diritti lo porta a credere di essere effettivamente un uomo libero. Potrà mai
essere effettivamente libero un uomo che per la sua sopravvivenza dipende da un
altro uomo al quale deve obbedire? Già il linguaggio comune, il parlare
concreto, è il locus in cui l’ideologia quotidiana ha così ben messo radici e mistificato
la faccenda della sua libertà.
Questa
ideologia quotidiana è per certi aspetti ancor più ricettiva e articolata
dell’ideologia ufficiale. Ed è proprio nel flusso dei rapporti sociali, della
comunicazione quotidiana, che le idee si radicano e diventano forze materiali
di conservazione, che le forme ideologiche mostrano senza veli il loro potere.
Ne avevo un riscontro tangibile oggi commentando e rispondendo sul blog di
Malvino a riguardo del tema trattato, cioè dello Stato nella sua pretesa rappresentazione
di soggetto neutrale.
In
questa gigantesca e inesauribile battaglia sul terreno della comunicazione
sociale nessuno è escluso o può sentirsi neutrale, mero spettatore. Ognuno di
noi, lo voglia o no, è partecipe dello scambio e dello scontro, fosse pure nel
rapporto uomo/donna o in quelli amicali e ricreativi. Figuriamoci poi nei
rapporti di lavoro, laddove il carattere ideologico, di classe, delle parole e
dei linguaggi, è ancora più forte. Si pensi per esempio alla paradossale
locuzione “datore di lavoro” riferita in realtà a chi il lavoro, invece di
darlo, lo prende.
Ed
è perciò facile, per chi controlla la produzione e la circolazione della comunicazione
ufficiale, imporre un determinato uso e significato alle parole e ai segni in
generale. E ciò si esprime tanto più nel divenire della crisi sociale, laddove
la modellizzazione e il controllo dei comportamenti e dei linguaggi è ancor più
essenziale (la schizofrenia che li investe è incoraggiata). Comportamenti e
linguaggi che appaiono “naturali”, ma che sono invece l’esecuzione di programmi
secondo precise coordinate ideologiche di classe.
E
torniamo al punto di partenza: far comprendere come sia reale e non fantastica
questa dimensione, ossia che non si tratti di Blade Runner ma delle nostre
vite, è difficile quanto far comprendere a un proletario salariato che equiparare
la sua condizione a quella di uno schiavo non è superfetazione ideologica
marxisteggiante (*).
(*)
«Allorché un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri, questo
individuo è lo schiavo degli altri» (Maffeo Pantaleoni, La caduta della Società Generale di Credito mobiliare Italiano,
UTET, 1988).
«I
mercanti non possono guadagnare senza mentire, e non c'è nulla di più
spregevole della menzogna [...] tutti coloro che vendono la loro fatica e la
loro industria, [...] chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se
stesso e si mette a livello degli schiavi» (Cicerone, Dei doveri, I, XLII).
«Lo
schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo
è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal
continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).
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