Non so se i patrioti veneti oltre
alle dispense scritte da taluni “serenissimi” abbiano adocchiato anche qualcos’altro
da leggere, e dunque se abbiano cognizione di che cos’è stata effettivamente la
Serenissima. Definirla repubblica, nel senso etimologico, sarebbe eccessivo, un
po’ come definire democrazia quella vigente nell’antica Atene. E tuttavia già il
comune Veneciarum seppe trasformare il dux in un magistrato, senza
riconoscergli alcun vantaggio personale e tantomeno dinastico. Non si trattò di
una rivoluzione, ma di una sapiente evoluzione, con una perfetta correttezza
formale (*). Al doge spettò la sovranità formale e gli onori, al comune il
potere, assecondando con ciò un’esigenza storica. In tal modo l’aristocrazia, e
non il “popolo veneto”, venne ad esercitare la sua funzione dominante nella concio generalis (arengo), e poi in
occasione della conferma popolare, questa divenuta una formalità sempre più priva di
valore, come succede anche modernamente in qualsiasi sistema parlamentare.
Fu merito indubbio della
aristocrazia mercantile veneziana se la città marinara seppe proclamare e
attuare l’idea dello Stato e della sovranità, in un’epoca, come ebbe a dire il
Maranini, “in cui il mondo sembrava averne perduta la nozione”. Si trattasse
anche di una dittatura di classe, essa era, diversamente da Firenze, Milano o da
qualsiasi altra situazione posta nella penisola e anche di fuori, una dittatura
anonima e impersonale, riflesso della volontà generale dell’aristocrazia, poiché
qualunque organismo statuale rappresentava un’assoluta garanzia nella sua
sottomissione alla tradizione e agli interessi generali aristocratici.
Vero è che la libertà e tolleranza
vigenti a Venezia non avevano eguali. E pure l’inquisizione dovette battere il
passo, e non è un caso che sia Manuzio che fra’ Paolo Sarpi operassero in città.
E se il racconto del Casanova può darci spunto per altre considerazioni, va
segnalato che si trattava di una Venezia politicamente stanca e socialmente
esausta. La città aveva compiuto il suo ciclo e tutti, più o meno confusamente,
l’avvertivano. Leggendo il Romanin se ne ha prova: quel patriziato, già così
fiero e combattivo, nel XVIII secolo sentiva come fatalità ineluttabile la
fine della propria storia. E difatti ci pensò un tal Buonaparte a chiudere i
suoi giorni di gloria e di festa, non senza averla rapinata dei suoi tesori e
altri distruggendoli. Perciò facciamocene una ragione, quella Serenissima lì è
morta, è tramontato l’edificio sociale e l’ambiente morale in cui era sorta e
aveva prosperato. Che è poi quello che sta succedendo a noi oggi, indecisi su
come muoverci nel futuro e ancora con una gamba piantata nel passato remoto.
I veneti non si sono mai troppo
sentiti italiani, nemmeno nel 1848, contrariamente a quanto raccontano le agiografie
scolastiche. Ippolito Nievo era un romantico che pagò con la vita gli intrighi
del nuovo potere subito dopo l’Unità. E ancora nel 1866, a Lissa, gli ufficiali
e i marinai che presero a bordate la flotta dell’ammiraglio Pellion, erano veneziani
(prego leggere il curriculum vitae del Pellion, esilarante e tragico emblema di
ciò che fu sempre quella razza). Furono loro a mandare a picco il naviglio della
regia marina e con esso i sanculotti siciliani – come ebbe a ricordare il Verga
– e pure quelli napoletani. E tuttavia i Veneti di oggi non sono anti-italiani,
e quelli che sbraitano ossessi davanti alle telecamere rappresentano un’infima
minoranza. I Veneti sono invece contro lo Stato italiano, e fanno maggioranza. Non sono
contro Roma, città più bella e come altre assassinata, ma contro le mafie e le
camarille che sgovernano nei palazzi romani.
Noi Veneti vogliamo l’autonomia,
non perché ci crediamo degli Dei come i Siciliani, ma al contrario perché ci
sentiamo a disagio con chi ha la battuta sempre pronta. Non perché un Zaia o un
Cacciari siano migliori di altri, ma perché siamo egoisti e individualisti, e
perciò vogliamo gestire in proprio i nostri schei,
anche nel caso siano spesi male. Insomma, siamo stufi dei Pellion, basta!
(*) I veneziani non consentivano che nuovi organi e istituti costituzionali
acquistassero definitivo riconoscimento, se prima non avevano fatto buona prova
come organi e istituti straordinari e provvisionali (Giuseppe Maranini, La Costituzione di Venezia, II, p. 328).
Come avviene oggi a Roma, vero?
noi schiavoni vogliamo l'autonomia, non perché ci crediamo dei gran lavoratori come i Veneti, ma al contrario perché ci sentiamo a disagio con chi non ha mai la battuta pronta. Non perché Brunetta o Scaroni siano peggiori di altri, ma perché non siamo coglioni e vogliamo gestire in proprio il nostro lavoro. Insomma, siamo stufi dei Treu, dei Sacconi e anche dei Parolin, basta!
RispondiEliminaVoi Veneti volete l'autonomia. Bene: da un punto di vista formale, la Costituzione prevede che altre regioni possano diventare autonome, oltre alle cinque già a Statuto speciale?
RispondiEliminaInoltre: se il Veneto diventasse la sesta regione autonoma (glielo auguro), è probabile che, per effetto a catena, è molto probabile che altre regioni (forse tutte) vogliano percorrere la stessa strada... e se tutte diventassero autonome, beh, per assurdo, in automatico, si avrebbe la realizzazione del federalismo.
ma se le regioni diventano tutte a statuto speciale, a roma i ladroni che magnano?
Eliminagiuro , stavolta non ho capito il senso del tuo articolo .
RispondiEliminaogni tanto succede anche a me
Eliminaciao
Da ricordare anche i veneti che servirono nell'imperial-regio esercito austriaco nel 1848 contro i piemontesi e nel 1866 contro i prussiani.
RispondiEliminaIn quest'ultima guerra, a Koeniggraetz, il reggimento veneto e il battaglione di Cacciatori in larga parte trentino attaccarono più volte nello Swiepwald, il settore più terribile della battaglia, subendo perdite spaventose sotto il fuoco dei fucili ad ago prussiani. Non pochi furono citati nel bollettino o decorati al valore.
la povera gente muore in tutti i fronti e sotto tutte le bandiere (tranne la loro)
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