A Parigi, all’epoca di Louis le
Dernier, lavoravano 1.200 parruccai con circa 6.000 aiutanti e altri 2.000
addetti facevano a domicilio lo stesso lavoro. La rivoluzione spazzò via le
parrucche, riconvertì tutta questa gente dapprima in disoccupati e sanculotti,
poi in soldati e operai. In buona sostanza la loro condizione non mutò.
Mai, finora, in tutte le trasformazioni avvenute nei modi di produzione
precedenti è stato mutato il tipo di attività, e invece ci si è limitati a
sostituire una forma di proprietà con un’altra, una forma di sfruttamento a un’altra.
C’è da chiedersi se questo
fissarsi dell'attività sociale in un potere obiettivo e coercitivo che ci
sovrasta, che contraddice le nostre aspettative e annienta i nostri calcoli,
non sia determinato dal gioco stesso della vita collettiva, oppure se sia
invece possibile una modulazione diversa dei rapporti sociali e delle forme
dell’attività concreta, se insomma il lavoro possa essere qualcosa di diverso
del dovere e del sacrificio, qualcosa di nuovo rispetto alla più gretta
subordinazione al bisogno, e ciò senza vagheggiare ritorni ai germani di Tacito
oppure gli indigeni d’America raccontati da Lewis H. Morgan, senza vaneggiare nostalgie
reazionarie del medioevo e di “decrescita felice”.
Non esisterà mai la società
perfetta, priva di contraddizioni e di conflitto e tuttavia la più fondamentale
causa di conflitto sociale riguarda – e ciò è indiscutibile – i rapporti di proprietà. In una società divisa
tra padroni e schiavi, in cui domina da un lato il bisogno degli sfruttati di trovarsi un padrone e dall’altro l’interesse dei padroni a mantenere le
cose come sono, è inevitabile che qualsiasi mutamento sociale possa operare
solo nel senso di una nuova distribuzione dello stesso tipo di attività, impedendo
la possibilità di trasformazione cosciente della materia sociale, della
produzione e distribuzione, dell’organizzazione in generale secondo scopi
predefiniti.
E però, come hanno dimostrato
l’esperienza sovietica e poi quella maoista, la trasformazione dei rapporti di proprietà di per sé non è
sufficiente perché si realizzi una metamorfosi rivoluzionaria
dell’organizzazione della produzione e dei rapporti sociali. Bisogna tener
conto del grado di sviluppo economico raggiunto, e dunque di altre determinazioni
dei rapporti di produzione quali le relazioni tra gli uomini nello scambio e il
modo di ripartizione del prodotto. In altri termini, non si possono fare le
nozze con i fichi secchi.
Una produzione che poggi sulla
mera sussistenza, oppure una produzione volta per cause storiche contingenti ad
obiettivi diversi dalla riduzione a
un minimo del lavoro necessario della società (dunque la creazione di tempo
disponibile per l’individuo e per l’intera società, come misura della ricchezza, a cui poi corrisponde il libero
sviluppo delle individualità nella formazione scientifica, artistica ecc.
grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti), non è matura per
quel salto di qualità necessario a trasformare l’organizzazione sociale in
senso propriamente comunista.
Il modo di produzione
capitalistico ha posto per primo la scienza al servizio immediato del processo
di produzione. In tal modo ha reso possibile la grande industria e una
produzione di merci e servizi inimmaginabili in passato. L’impiego di macchine
sempre più complesse e perfezionate ha ridotto il tempo di lavoro nel quale si
può produrre la stessa merce, in tal modo diminuendo il valore della merce e
rendendo il lavoro più produttivo. E però questo fatto d’importanza storica
decisiva contiene in sé delle contraddizioni di non poco conto che riguardano
rispettivamente la svalutazione del lavoro (*), la crisi (**) e la
disoccupazione (***).
Il capitale si pone in completa
contrapposizione con il lavoro salariato, in quanto il capitale tende a svalutare
la forza-lavoro viva (in tal modo aumentando la quota di plusvalore) e a
trasformare quest’ultima in superflua, sia in determinati processi produttivi
sia riducendola al minor numero possibile. Ecco che noi vediamo moltissimi uomini
e donne delle nuove generazioni, e anche della più anziana, considerati come
uomini e donne superflui.
È sempre accaduto nella storia del
capitalismo, ma ciò che risulta nuovo è la vastità e profondità di questo
processo che segna la sua crisi storica manifestandosi su scala mondiale e in relazione
a tutte le figure del lavoro, non solo di quello salariato.
Il modo di produzione
capitalistico non ha alcun interesse diretto allo sviluppo sociale se non in
vista del profitto. Per sua natura è antagonista della riduzione del tempo
di lavoro al solo lavoro socialmente necessario, così come non ha alcun
interesse (al contrario!) a superare la polarizzazione estrema del sapere e
dell’eseguire.
Liberando se stessi dalla
schiavitù del lavoro capitalistico è possibile promuovere, sulla base delle possibilità raggiunte dalla scienze e dalla tecnologia, un modo di produzione
e consumo diverso, un’organizzazione sociale nuova, una nuova umanità.
(*) Il ribasso delle merci è pari
alla relativa svalutazione della forza-lavoro.
(**) La macchina riduce il numero
di operai occupati da un dato capitale, perciò essa da un lato eleva il tasso di plusvalore, dall’altro
ne diminuisce la massa, in quanto
riduce il numero di operai occupati contemporaneamente da un dato capitale.
(***) La produzione capitalistica,
con lo sviluppo dell’automazione e dell’organizzazione tecnica, non comporta
una riduzione della giornata lavorativa, riduzione inconciliabile con gli scopi
della produzione di plusvalore, ma riduce il numero degli operai, in quanto
superflui per la produzione di pluslavoro e non in quanto superflui in un modo
di produzione avente scopi diversi da quelli capitalistici.
Probabilmente c'era più democrazia in un villaggio dei Germani di Tacito che in tutto il mondo "libero" di oggi. Poi, certo, avevano altri problemi. Uno però no: non avevano televisioni e giornali di regime.
RispondiEliminaTelevisioni e giornali di regime.
RispondiEliminaInfatti uno degli elementi decisivi di oggi forse più di ieri è l'informazione. Prima dell'astensione al voto che è episodica, più drastica e continuativa è l'eliminazione totale di giornali e TV. La scelta alternativa telematica è infinita e sta alla nostra preparazione operare scelte di attendibilità (che non devono essere necessariamente faziose). Rimane un semplice quesito: quanti lettori p.e.seguono questa rubrica (o altre del tipo) rispetto a quelli di Repubblica o Corrierone. Sono quest'ultimi da informare o se del caso convincere. L'obbiettivo sono i numeri non le elite.
A proposito di blog,mi viene in mente una domanda da 25 Aprile. A rivoluzione conclusa -quando sarà- cosa gli faremo fare per esempio ai vari malvino e a molti altri snob della categoria ?
RispondiEliminaMao Ze Dong non mi è mai stato simpaticissimo ma l'idea della didattica della terra o della fabbrica sarebbe da riprendere.
Speriamo davvero in una nuova organizzazione sociale.
Carlo Z.
E' nel NEOLITICO che si instaurano nuovi rapporti sociali, che porteranno alle specializzazioni produttive, alla divisione in Classi ed alla nascita delle disuguaglianze. POTERE e DENARO. Come uscirne? Finora con la Guerra.
RispondiEliminaI segnali ci sono tutti, Siria, Ucraina, Senkaku, spese militari 1.756 miliardi di $, 725 basi USA in giro per il mondo.
Dalla relAzione che sto andando a fare ad un Cineforum dove proietteremo le QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI.
Adieu Madame, speriamo bene.
Hai centrato perfettamente il problema.
RispondiEliminaSfortunatamente pero' non se e' ancora trovata la soluzione perche' paradossalmente non interessa a nessuno . Ovviamente appunto non al " capitalista" ma direi non meno al "salariato" ,che e' si un " povero" , ma purtroppo soprattutto lo e' di " spirito".
Infatti la spiacevole verita' che emerge dalla storia e ' che salvo belle e lodevoli eccezioni " le elite" ( e anche quelle che avranno " studiato marx ":-)) coglieranno sempre il proprio vantaggio a dominare attraverso il controllo dei " mezzi " . sia di" produzione" che di " formazione " e di " coercizione" , e" le masse" saranno sempre sostanzialmente " irredimibili" dal loro stato psicologico di " servaggio".
ws