venerdì 23 luglio 2010

Giro di vite / 1


Amburgo, il rogo è durato tre giorni, la città non c’è più, fusa con i suoi abitanti. Scesi nei rifugi, i loro polmoni sono stati bruciati dal fosforo e il calore ha reso i corpi irriconoscibili. I poveri resti che si riescono a recuperare sono traslati in un nuovo cimitero.
Il cielo è terso, la giornata radiosa e, pur gli incendi ormai domati, il caldo opprimente, in quel luglio 1943. Karl Wahrheit, detto il “vecchio”, nonostante non dimostri più dei suoi 56 anni, è un ausiliario, capo squadra della Sicherheits und Hilfdienst, formazioni di pronto soccorso e sicurezza. Per lui il recupero delle salme di caduti non è una novità: nel precedente conflitto, sul fronte francese, ha servito dapprima come portaferiti, poi come infermiere in un ospedale da campo. Tuttavia un’ecatombe senza distinzione per sesso ed età come quella seguita al bombardamento aereo della città, non l’aveva ancora vista.
Il ricordo della “sua” guerra al fronte, tra il 1914 e il ’18, è sempre vivo, soprattutto in questi anni di nuovo conflitto. Ma un certo episodio di quella guerra di trincea riaffiorava sovente alla sua mente, specie negli ultimi lustri. Anzi, nei mesi più recenti il ricordo di quel fatto accaduto un mattino di molti anni addietro, si era fatto persistente, assillante, angosciante.
Karl aveva titubato a lungo, ma poi decise di recarsi presso una villetta non lontano da Amburgo, ad Eidelstedt, dove abita un medico di sua conoscenza, non uno psicologo, ma un chirurgo, una persona di cui si fida. È lo stesso ufficiale medico, ormai anziano e in pensione, con cui aveva lavorato nell’ospedale da campo durante la grande guerra. Nel giardino ben tenuto di quella villetta gli racconta tutto, non trascurando i dettagli di quel giorno dell’autunno 1918.
L’amico, il dottore, l’ascolta attentamente; conosce bene Karl, sa che è un uomo con i piedi per terra, che piuttosto di una parola in più ne dice una in meno. Al termine del racconto rimangono in silenzio. Poi l’anziano chirurgo, guardando Hans negli occhi, gli sussurra solo una parola: «Possibile?». Più che una domanda, una presa d’atto del comune sconcerto. Hans china il capo, quasi a nascondere l’emozione, e risponde turbato: «Ho rimuginato a lungo in questi anni su questa stranissima vicenda, e tutto coincide esattamente». «Quindi – osservò infine il dottore – tu pensi che possa esserci stato una specie … ». Qui s’interruppe e non aggiunse altro.
Dopo un po’ i due si salutano con la solita cordialità. Il medico guarda Karl mentre si allontana, quando questi si volta e gli dice ad alta voce: «Lo so, questa faccenda non ha nulla di razionale, ma cosa c’è di razionale in molte delle cose che si vedono oggi?». Il dottore, sorridendo: «Stavo giusto pensando la stessa cosa, Karl».
* * *
Sulla linea del fronte franco-anglo-tedesco, nei pressi di Wervick, è una fredda e lattiginosa alba d’inizio autunno del quinto anno di guerra. Presso la testa di trincea è in turno di guardia il dragone scelto Ferdinand D., originario di Parigi, anzi di Courbevoie, come amava precisare, classe 1894, volontario per disperazione dal 1913. Ha tentato dieci mestieri, a dire il vero assai ingrati, ma tutti falliti. Non si poteva dire che difettasse di volontà e in taluni casi perfino di una certa abnegazione per il lavoro, ma gli mancò la fortuna. Senza mete e senza futuro, l’arruolamento nell’Armée gli aveva garantito pasti regolari e un po’ di franchi da scialare quando si sentiva particolarmente triste. Confidava negli oltre quarant’anni di non belligeranza della Francia, ma questa si dimostrò ben presto una garanzia illusoria.
Due settimane addietro rimase ferito, ma in modo troppo lieve da scucire più di qualche medicazione e alcuni giorni tra lenzuoli puliti, sigarette e mezze bottiglie di vino. Né poteva pretendere che la sua bella fosse venuta a fargli vista all’ospedale, sobbarcandosi un viaggio da Parigi, visto anche l’impegno lavorativo alla maison di Rue de la Paix. E comunque non ci fu nemmeno il tempo d’imbastire una tresca con una crocerossina perché rispedito al mittente, laddove i boschi e la vita d’un tempo sono estinti da anni, sostituiti da reticolati, camminamenti, crateri, topi giganteschi, fame, sonno, puzzo rancido e di escrementi, ma soprattutto da una partita estenuate a rubamazzo tra carname.
A inizio del turno di guardia, quasi due ore prima, c’era stato tra le linee uno scambio di colpi di medio calibro, per la verità assai sporadico e per compiacere gli umori dei rispettivi comandi d’artiglieria di corpo d’armata. Dopo circa un’ora, con il primo chiarore, era seguito un fraseggio di armi leggere tra gli avamposti, anche questo poco convinto e ben presto sopito senza rimpianto. Almeno così sembrava.
Non sono ancora le otto che la nostra vedetta addenta con metodo un biscotto, di quelli dolci, riserva gelosamente centellinata, provvista ottenuta in ospedale in cambio di piccoli servizi e un po’ di ruffianeria. Il dragone scelto assapora il momento, assai prossimo, in cui potrà sorbire mezzo gavettino di quel surrogato nerastro che l’amministrazione militare chiama virtuosamente caffè.
La riflessione edonistica di Ferdinand è interrotta da un razzo che illumina la scena del fronte; sul fondo, a destra, a circa mille passi, dietro i cavalli di Frisia, presso il villaggio diroccato, parte un intenso fuoco di moschetteria e mitragliatrici, i tedeschi hanno individuato l’avanzare di alcuni guastatori del genio dotati di tubi di gelignite, non devono farli arrivare agli sbarramenti di filo spinato.
Lo schieramento francese risponde, i traccianti incrociano nella terra di nessuno, quindi si svegliano anche i mortai. Il fragore aumenta man mano che intervengono le batterie leggere, poi anche le pesanti. È iniziata l’ultima offensiva sul fronte occidentale, ma il nostro soldatino non né è informato. Maledice i crucchi, impreca la guerra e invia un augurio speciale al tenente colonnello medico che il giorno prima l’ha rispedito in quel manicomio. [il resto segue nel post di domani]

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