Alle origini i
preti cristiani dichiaravano che le idee religiose, diverse da quella
cristiana, erano fantastici artifici della credulità popolare (oggi non lo possono
più dire impunemente). Trascinare gli Dei
nella derisione serviva al cristianesimo per stabilire il proprio monopolio, ma
esso non si presentava solo con le credenziali di esclusivo rappresentante dei
prodotti di consolazione offerti dall’unica vera religione. Per affiancare la
propria organizzazione a quella romana, al cristianesimo non bastava inzuppare
il pane nella ferita esistenziale, inventare la sofferenza ontologica sapendo
che gli individui tribolanti e angosciati preferiscono dar fede a un’incongrua
ma consolante fandonia piuttosto che prendere atto di una solare ma disperante
verità. Per farsi accettare come valido interlocutore dall’establishment, il
cristianesimo doveva anzitutto proporre un proprio sistema di welfare alternativo
a quello dell’impero irreversibilmente in crisi. Questa è la vera chiave del successo
della “nuova” religione, il motivo dell’intuizione costantiniana e dell’astuta elaborazione
scritturale eusebiana.
Non una divinità
astratta, non il mito più clamoroso e controverso della storia dell’Occidente
[1], bensì un Dio che si fa uomo, un’esistenza tangibile testimoniata da
venerate scritture [2]. È Gesù, detto anche Cristo [3], proclamato figlio
unigenito del dio Yahvè o Jahvé [4], l’irascibile e vendicativo Dio degli
antichi Giudei, ossia di ciò che sarà l’invenzione del mito ebraico. Partorito
da una giovinetta ebrea maritata a un ineffabile artigiano [5], ma resa
gravida, non è ben chiaro come, da uno spirito, egli nacque e visse tra noi con
lo scopo di salvarci dal peccato, anzitutto dall’azione di rivendica del
peccato originale promossa da Dio, cioè da esso stesso, del quale peccato si
sarebbero resi responsabili i nostri progenitori nel momento in cui non vollero
più recitare la parte dei panda in un contesto di socialismo reale ante litteram.
Anche papa
Wojtyla, nella Lettera apostolica novo millennio ineunte, per quanto
riguarda questa favola, parla di “complessa redazione”. Non possono non venire
alla mente le celebri parole dell’Anticristo
di Friedrich Nietzsche, laddove scrive che persino se si ha per l’onestà la più
modesta pretesa, si deve oggi sapere che un teologo, un prete, un papa, non
soltanto errano, ma mentono ad ogni frase proferita.
Il resto della storia
è noto: il figliolo di Jahvé avrebbe compiuto, durante la sua permanenza sul
nostro minuscolo pianeta, prodigi clamorosi. Tuttavia la malvagità degli uomini
presso i quali aveva scelto di nascere e vivere ebbe il sopravvento: lo
mandarono al patibolo, così come spesso avviene alla grandezza incompresa. A ogni
buon conto, risuscitato dalla morte, lo spettro di Gesù saliva al cielo con
apoteosi di angeli, promettendo che un giorno sarebbe ritornato (prestissimo: Mc 9-1; sine die: Atti, 7-1) per instaurare il
suo Regno che non avrà fine, indi per giudicare i vivi e i morti. Coloro che mostrano
fede in questa sciarada saranno gratificanti con l’eterna beatitudine e quelli invece
che si ostinano a scrivere queste cose nei blog saranno condannanti alle più
atroci e imperiture sofferenze. In attesa dell’eschaton, il dio-uomo-morto-risuscitato diede mandato ai suoi
seguaci di costituirsi in una società di persone e soprattutto di capitali la
cui ragione sociale è appunto l’annuncio del Regno. Il mandato sarebbe tutto in
questa frase: “tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”.
Un mandato tutto
sommato innocuo, se non fosse causa di gravi conseguenze pratiche per coloro che
vorrebbero tenersene lontani, anzi soprattutto per costoro. Il contadino che
non rinnega i propri idoli tradizionali come minimo riceve una dose di
bastonate (C.Th. 16.52.I). È proibita ogni cerimonia dell’antica religione a
Roma con legge del 391; l’editto di Costantinopoli dell’8 novembre del 392
estende la proscrizione in tutto l’Impero di ogni atto o forma di culto
tradizionale; nel 399 in Oriente si demoliscono i templi rurali e in Occidente
tra il 407 e il 415 si procede alla confisca di tutte le rendite dei templi.
Nel 423 Teodosio ordina la distruzione di tutti i templi e santuari che sono
ancora esistenti, benché “non ne dovessero più esistere”. Ciò che succede al
tempio-santuario-biblioteca di Serapide e alla filosofa alessandrina Ipazia è divenuto
noto soprattutto di recente e varrebbe di per sé una giornata della “memoria”
da celebrarsi in una certa piazza romana, se non altro a conferma che quello
ecclesiastico è “pentimento” vero.
Invece i notai
della Dei Verbum frodano il senso comune spacciando i Vangeli per una novella d’amore e perdono, un paradigma di
fratellanza e bontà. In realtà i Vangeli – anche su questo versante – contengono
tutto e il loro contrario (sull’amore quale essenza stessa di Dio ha già esaurito
l’argomento Feuerbach). È vero che s’invita l’offeso a porgere l’altra guancia,
che Gesù nel Getsemani ammonisce di non ricorrere alla spada, ma vi sono
innumerevoli altri passi che dicono cose assai diverse. Per i cultori della
materia: Mt. 11,20-25; 13,42-50; Lc. 10,15; 13,27; 22-13; 25-14.
Il cristianesimo
avrebbe ben presto tradito l’originaria ragione sociale: Colui che è
catechizzato nella parola stia in comunanza in tutti i beni col catechizzatore
(Galati: 6-6), che in termini più prosaici stabilisce il predominio dei preti e
il loro diritto di alzare le sottane alle parrocchiane, ma soprattutto di
governare il senso delle “scritture”. L’organizzazione ecclesiastica assumerà
compiti decisivi nell’àmbito degli organismi statuali, e anzi si costituirà
essa stessa come un vero e proprio Stato, con a capo un monarca assoluto,
spesso in contesa bellica con altri Stati. Un potere che per molti secoli
perseguiterà in ogni modo coloro che non si prostrano all’autorità del papa e
al giudizio di quella lieta combriccola di preti sadici che lo circonda [6].
Per gli ebrei il
papismo decretò fossero confinati in ghetti, relegandoli in vili commerci e
nell’usura, calunniandoli di ogni turpitudine, accusandoli di utilizzare “il
sangue cristiano per levarsi il loro cattivo odore” e di altre stravaganze.
Anche coloro che si dichiaravano sostanzialmente d’accordo, ma adducevano
qualche mal di pancia rispetto alle teorie e non lievi pratiche dell’ortodossia,
venivano sottoposti a “pragmatiche sanzioni”.
Scrive a tale
proposito Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico e notista del
quotidiano Avvenire: « L’uomo occidentale sa che le chiese hanno
spesso sostenuto il potere politico, e quasi sempre difeso i propri privilegi.
Che hanno resistito ai cambiamenti richiesti dall’evoluzione storica, e che
sovente hanno agito in senso opposto ai principi che proclamavano. Che nel
giudicare i comportamenti umani sono state strabiche, condannando piccole colpe
quotidiane e lasciando impunite gigantesche responsabilità di uomini e gruppi
sociali » (in: Karol Wojtyla, Vittoria e tramonto, p. 53).
Il cambiamento che
venne promuovendosi nei secoli dell’espansione europea e dello sviluppo della
manifattura industriale, aveva il bisogno vitale di liberare le forze produttive
e le potenzialità della scienza. Tale movimento rivelò l’usura delle antiche
strutture, l’impossibilità che esse potessero rinnovarsi. Per la prima volta fu
dichiarata l’agibilità di nuovi e universali diritti, un nuovo rapporto libero e volontario tra coscienza
individuale e fede religiosa. È l’alba di una nuova epoca: l’uccello di Minerva
divora il ratto teologico e con ciò il pensiero sedentario e parassita.
Separazione dei poteri, suffragio universale, eguaglianza, parità uomo-donna,
affrancamento e decolonizzazione non hanno radici nella religione, men che meno
nel cattolicesimo nemico dichiarato di ogni modernità e libertà individuale.
L’aveva ben compreso
Nietzsche quando scrisse che ogni divenire è, nei confronti dell’essere eterno,
un’emanazione colpevole. Carlo Cardia, dal canto suo, prende atto che: «C’è
qui un velo che copre gli occhi di Giovanni Paolo II e che gli impedisce di
vedere la soglia antropologica raggiunta e dalla quale presumibilmente non si
tornerà più indietro: la soglia della consapevolezza e della coscienza, con le
quali anche il bisogno religioso viene avvertito, vissuto o declinato. Il Papa
non sembra saper parlare un linguaggio adatto alle tante modulazioni della
coscienza, e sembra anche psicologicamente lontano dalla complessità». Non
si può non essere d’accordo con l’autorevole fonte cattolica.
L’azione del
cattolicesimo reazionario trova ascolto ancora e solo in società politicamente
spappolate e ostaggio di classi dirigenti culturalmente retrive e concluse, incapaci
di farsi interpreti e promotrici di libertà e razionalità, ossessionate dal
proprio potere castale. Classi dirigenti che per opportunismo non cessano di
genuflettersi davanti alle sante reliquie, ridicole nei loro populistici
motteggi e incuranti di impedire – con la loro permanente occupazione dei
centri di potere politico e amministrativo – l’emergere di quello che c’è di
buono nella società civile.
Le innumerevoli ignominie di cui il cristianesimo e in particolare il
cattolicesimo si è reso capace in ogni epoca, l’intellighenzia nostrana si è
sempre dichiarata disponibile a qualsiasi tipo di patteggiamento con la
menzogna più durevole. “Dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani”, recita il
fantasma di Benedetto Croce, cui fa eco la versione sinistra del “perché non
possiamo non dirci cristiani”, ignorando l’ammonimento brechtiano: la battaglia
della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità.
Il cristianesimo,
in primis quello romano, è cosciente che la crisi irreversibile dell’impero
della merce, del capitalismo monopolistico, minaccia di produrre nuove e
terribili cadute nella barbarie. Se oggi possediamo il più gran numero di
oggetti poveri, il prete vorrebbe presiedere la lotta contro tale forma di alienazione,
ma in tal senso può offrire solo un surrogato scaduto. Ponendosi come ultima
risorsa metafisica di un mondo cadente e morente, aggrappandosi al relitto di
una società che affonda, la Chiesa spera di salvarsi assieme a tutto ciò che
possiede, e invece colerà a picco assieme.
[1] Se vi è stata
una figura storica autentica dalla quale il successivo racconto evangelico ha
tratto in qualche modo ispirazione, non lo sapremo mai con certezza. Su questo
punto, inessenziale ai fini della credenza salvifica, si possono solo adombrare
mere ipotesi fornendo cospicui guadagni ai loro autori e agli editori.
«Falsificazioni
letterarie abbondavano nella letteratura greca e romana, e libri religiosi
pagani, ebraici e cristiani, venivano spesso messi in circolazione sotto il
nome di qualche antico personaggio illustre. Appena gli Ebrei impararono
abbastanza il greco, cominciarono a fabbricare testi di famosi autori greci che
glorificavano il popolo eletto. Già nel 150, i cristiani avevano confezionato
le minute del processo a Gesù. Durante la grande persecuzione del 211, le
autorità romane fabbricarono falsi atti dello stesso processo. Un secolo più
tardi, Agostino conosceva le lettere apocrife di Gesù nelle quali questi
appariva come un mago» (Elias J. Bickerman, Quattro libri stravaganti della
Bibbia, Pàtron 1979, p. 144). Sulla fraudolenta facilità e competenza
manipolatoria del cattolicesimo romano, si possono citare, oltre ai casi
innumerevoli e molto noti, il fatto che nell’809 Carlo Magno fu costretto, a
causa della nota vertenza sul “filioque”, a far incidere il Credo su delle
lastre affinché non subisse repentine “trasmutazioni”.
Gran parte della
“storiografia” cristiana e della costruzione del mito cristologico, prende
avvio con Eusebio di Cesarea, negli anni cruciali di Costantino e del concilio
di Nicea. Monsignor Duchesne ebbe a scrivere a proposito di Eusebio che “tutto
è accompagnato in lui da così copiose reticenze, precauzioni oratorie e
sottintesi, che spesso riusciamo a fatica a capire quel che vuol dire”. Della
sua celebre opera, Vita Costantini,
si contano 7 manoscritti, ma solo 3 effettivamente utilizzabili. Anche di
questi mss. i più antichi datano dall’XI secolo. L’Heikel, uno dei massimi
esegeti di Eusebio, constatò che tutti i mss. usati fino allora erano
interpolati ed ebbe la ventura di conoscerne alcuni fino allora ignoti e fra
essi il miglior manoscritto della Vita,
noto come Vaticano 149. Per l’Heikel, Eusebio “non scrive soltanto per i suoi
contemporanei, ma anche per i posteri”. Sull’autenticità dei documenti
costantiniani, pubblicati nella Vita
Costantini, in part. l’Editto ai Prov.li di Palestina (VCII, 24/42), gli
storici sono tutt’altro che concordi. Per controdeduzioni: Ireneo Daniele, I documenti costantiniani della Vita
Costantini, Università Gregoriana, 1938. Un’opera per lunghi tratti
considerata fondamentale in tema di questi studi è quella del Crivellucci, Della
fede storica di Eusebio ecc., Livorno 1888, pubblicata in appendice alla St. delle relazioni tra Stato e Chiesa.
[2] L’archeologia
cristiana (gli studiosi citati in queste note sono tutti collegati al
Pontificio Istituto di archeologia cristiana) ci segnala che del nome di Gesù,
fino ad epoca piuttosto tarda, non c’è traccia. Si rintraccia l’acrostico IKZVS
(ΙΧΘΥΣ), che in sé significa pesce e che secondo Friedrich W. Deichmann «è
stato a lungo il simbolo principale del Cristo e ogni sua raffigurazione
nell’arte della tarda epoca imperiale romana è stata interpretata, in un certo
senso quasi obbligatoriamente, come il simbolo di Gesù Cristo, fissandone
l’origine all’età apostolica. Così sono state riferite a Cristo molte immagini
del pesce che invece possedevano tutt’altro significato, ossia non
rappresentavano alcun simbolo di Gesù Cristo, né avevano alcun altro
significato cristiano. Difatti allo stato delle nostre conoscenza il pesce
divennne simbolo di Cristo solamente verso la fine del II secolo d.C.. Ma al
contempo il pesce poteva simbolizzare anche il semplice fedele [...] Inoltre il
pesce appare come significato eucaristico. [...] Tuttavia oggi sappiamo
che il pesce in questo caso raramente aveva un legame diretto con Gesù Cristo,
bensì raffigurava solamente un piatto scelto [...]» (Archeologia
cristiana, L’Erma di Bretschneider, 1993, p. 152-53).
Interessante
segnalare il modo di operare di certi archeologi del passato, per es. il famoso
G.B. De Rossi: recuperati ed interpretati dei piccoli frammenti di iscrizioni,
ne integrava le parti mancanti con testi e trascrizioni del VII secolo! Oggi
possiamo leggere nella cripta dei papi della catacomba di san Callisto, un
celeberrimo carme ricomposto con questa metodica (cfr. Carlo Pavia, Roma sotterranea, Gangemi 1998, p. 279).
[3] Ogni lettera
dell’alfabeto ebraico e greco-latino, racchiude un aspetto misterico (per un
interessante disanima: Bernard Dubourg, L’invention
de Jésus, vol. I: L’hébreu du nouveau
testament; vol. II: La fabrication du
nouveau testament, Gallimard, 1987-1989). Altrettanto succede per l’uso
simbolico delle lettere che nel cristianesimo hanno rappresentato la croce di
Cristo. La lettera greca tau (T)
corrispondeva più similmente al taw paleosemitico (+), l’ultimo grafema
dell’alfabeto ebraico, che sviluppatosi successivamente in X ha contribuito a far associare, dai latini, questo nuovo segno
alla crux decussata, nota anche come la croce di sant’Andrea (X). Tale corrispondenza, però, fu
soltanto formale: le due lettere, infatti, furono associate non solo perché
foneticamente simili, ma perché i loro morfemi richiamavano facilmente la
figura della croce; si cercò, cioè, quel che più vi si avvicinava. La
tradizione ebraica, com’è noto, enfatizzò il tau: Ezechiele lo vede segnato
sulla fronte dei giusti che Dio voleva salvare dall’imminente flagello (9, 4).
Anche nella letteratura sacra cristiana il tau appare come segno di salvezza:
nell’Apocalisse i servi di Dio delle varie tribù d’Israele sono segnati con
questo misterioso simbolo, il “segno divino” per eccellenza.
Il taw (t), l’ultima lettera dell’odierno
alfabeto ebraico, corrisponde all’omega (Ω), l’ultima di quello greco, da cui
le associazioni come lettere escatologiche che simboleggiano la signoria di
Cristo sul tempo e sulla storia. Per l’ebraismo tale segno ebbe un’importante
valore perché fu considerato come “segno di YHWH”, uno dei nomi del Signore,
definito già dal profeta Isaia come l’Ultimo (44,6 e 48,12). È per questo
motivo che il sommo sacerdote era consacrato con un’unzione a forma di X (Chi)
greco: l’antico taw semitico, diventa il Cristòs, l’Unto che portava il nome di
Dio. Il cristianesimo s’appropriò del taw paleosemitico e l’elaborò nel suo
significato teologico. Il tau, quindi, avrebbe rappresentato per i teologi del
cristianesimo il “segno del Salvatore”; ciò può trovare conferma nel fatto che
per gli ebrei il taw aveva già una significazione sacra, infatti era la lettera
con la quale iniziava la parola hrwt (Thoràh) e che indicava sia la Legge sia
coloro che vivono secondo la Legge.
Nel 337 Eusebio
scrive la cronaca della battaglia di Ponte Milvio, “come meglio potè”, sul
racconto di Lattanzio, De mortibus
persecutorum (“orribile opuscolo” proveniente da “una voce stridente di
odio implacabile”, secondo A. Momigliano: Storiografia
pagana e cristiana nel sec. IV d.C., nel vol. di AA.VV., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo
nel IV secolo, Einaudi 1968, p. 91). In essa si racconta del sogno di
Costantino e del simbolo della croce sul vessillo delle sue truppe. Nella sua
precedente Storia Ecclesiastica del
325, la favoletta non è ancora confezionata. Dopotutto la croce non era un
simbolo esclusivamente cristiano. In precedenza i Galli avevano combattuto
sotto la croce di luce del dio Sole (era una X con una linea ripiegata in cima e al centro di questa lettera),
sicché per i soldati quello era semplicemente il loro làbaro. Questo tipo
d’insegna fu posto molto in evidenza nella battaglia di Ponte Milvio perché
tutti i romani (cristiani e pagani) dall'interno della città potessero
nettamente distinguere le truppe di Costantino che stavano dando l'assalto
dall’esterno.
Nell’opera
fondamentale di Pasquale Testini, Archeologia
cristiana, Terzo libro, Epigrafia,
cap. II, Elementi tecnici, si legge: «Va
però notato [che tutti i monogrammi] sin qui esaminati e perfino lo
stesso segno di croce nella forma matura del sec. IV, formata da due semplici
bracci trasversali incrociati, hanno numerosi precedenti grafici similari in
vari segni egizi, semitici, ebraici e in genere delle civiltà precristiane del
medio Oriente. Il cristianesimo, come fu suo costume, conferì loro un contenuto nuovo [...] I pochi monumenti
superstiti, anteriori a Costantino, sono talvolta contraddittori e comunque non
rivelano elementi sufficientemente sicuri, né consentono, almeno per ora,
affermazioni cronologiche precise» (p. 361). Pertanto al simbolo della
croce fu dato un contenuto nuovo, ma solo a partire dal IV secolo. Prima di
allora l’archeologia non recupera nulla di significativo. Per Robin Lane Fox
non esiste nell’entourage cristiana un segno del Chi-Rho (XP) che possa essere fatto risalire ad un’epoca precedente a quella
costantiniana.
[4] « L’Eglise
accepta en bloc tout le service religieux des synagogues» (L. Duchesne, Origines
du culte chrétien, De Boccard ed., Paris 1925, p. 49). Fenomeno noto come translatio Hierosolymae.
[5] Per molto tempo
la nascita del Cristo non fu celebrata, e, in seguito, venne descritta in modo
estremamente vario, non era certa neppure la determinazione dell'anno della
nascita (per non parlare poi della storicità dell'evento). Intorno al 200,
secondo quanto si sa da Clemente Alessandrino, per alcuni era il 19 di aprile,
per altri il 20 di maggio, mentre lo stesso Clemente credeva che la data esatta
fosse il 17 novembre (Clemente Alessandrino, St. rom. 1, 21 e 147). Il natale veniva festeggiato nell’Egitto del
II secolo il 6 di gennaio (11 Tybi), giorno della nascita del dio Eone, ovvero
Osiride (vedi Plutarco: Iside e Osiride:
12, 355 E.). Fu solo dal 353 che la Chiesa indicò il 25 dicembre, nel quale
ricorreva la festività di Mitra, l’invitto dio del Sole, e tale scelta si
proponeva soltanto di cancellare dalla memoria popolare la ricorrenza “pagana”.
L'Avvento, festa preliminare alla celebrazione del Natale, fu introdotto
addirittura solo nel VI secolo. La nuova solennità ecclesiastica divenne ben
presto assai popolare poiché trasformava e adeguava la festa pagana del
solstizio, la festività dell’Eone, cioè della mitica rappresentazione della
nascita del nuovo Sole. In tale circostanza, nella notte fra il 24 ed il 25
dicembre gli iniziati si raccoglievano in un adyton sotterraneo per compiere riti iniziatici intorno alla
mezzanotte. All'alba i fedeli lasciavano in processione il luogo sacro,
portando con sé la statuetta di un bambino, simbolo del Figlio del dio del Sole
appena nato dalla Vergine, la Dea Cælestis, e non appena sorgeva l’alba
recitavano in coro la formula liturgica: «La Vergine ha partorito, la luce
cresce». Il racconto cristiano del Natale è talmente popolare, che molti
credono che esso si trovi in tutti i Vangeli, mentre, al contrario, è presente
soltanto in Luca, il quale ha rielaborato una tradizione veterotestamentaria e
più ancora un patrimonio culturale “pagano”.
[6] Per quanto
riguarda, p. es. le persecuzioni contro i valdesi e in genere gli altri
eretici, essi vennero perseguitati essenzialmente per il fatto che volevano
dare testimonianza diretta del Vangelo. Ancora nel 1689, cioè dopo sette secoli
dalla grande persecuzione, le poche centinaia di superstiti valdesi, non lontano
da Torre Pellice, furono circondati dalle truppe dei Savoia (sì, sempre loro) e
dai loro alleati francesi. La “soluzione finale” non trovò compimento per il
semplice fatto che ebbe termine l’alleanza franco-piemontese!
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