martedì 23 luglio 2024

L’UE ha un’origine nazionalsocialista?

 

Un Paese abitato sempre più da vecchi. Da schiavi chini sotto il sole a piombo per consentire a noi di pagare una bottiglia di passata di pomodoro a soli due euro, che però sono pur sempre quattromila lire. Un Paese le cui industrie e le società di fornitura più importanti sono proprietà di multinazionali estere. Un libero mercato che è soltanto il liberò arbitrio dei cartelli di taglieggiarci.

Ma anche un Paese di cosche di concessionari pubblici (acqua, spiagge, strade, cave, ecc.), lobby di tassinari, di disinvolti attori delle libere professioni e mestieri, e insomma di chiunque possa agire con la prepotenza legale e imporre il proprio dazio. Un debito pubblico gigantesco che non si vede come possa essere risanato. Dunque non è solo colpa della UE.

E però la sopravvalutazione dell’euro come tassa e l’omissione di informazioni essenziali su che cosa s’andava incontro aderendo alla moneta unica sono fatti. E le nostre “autorità” a eseguire pedissequamente gli ordini provenienti dalle cattedrali della fede neoliberale.

I burattinai del processo di “liberalizzazione” sono più occulti degli avatar della UE, del tutto indifferenti ed estranei alla produttività naturale dei paesi e agli interessi permanenti dei popoli interessati. Un’economia che non agisce secondo la gerarchia dei bisogni, ma nel culto dell’esportazione e dell’accumulazione, una vasta pompa aspirante di profitti da reinvestire nella speculazione.

A ben vedere non si è trattato infine dell’Europa di Spinelli e simili. Già durante la guerra mondiale, constatato il moribondo liberalismo prebellico, si era sviluppata l’idea generale di una “comunità europea” la cui costituzione era stata ritardata dagli “ostacoli idioti” e da altre “assurdità” del periodo tra le due guerre.

Si scontrano allora due concezioni di Europa: quella celebre di Aristide Briand, di una “Unione Europea” in forma federale, e all’opposto la concezione nazionalsocialista di una Unione Europea totalitaria. Non ci siamo fatti mancare niente anche in questo caso.

Nel 1942 è Raimund Schulz, ex direttore di una grande azienda aeronautica, a teorizzare (Il grande spazio economico europeo) che la visione liberale del mondo come un’unica grande area di libero scambio è stata minata dalla guerra e che una riorganizzazione deve essere intrapresa sulla base di grandi blocchi, definiti secondo criteri storici e geografici. Così concepisce la costituzione di un unico grande spazio in Europa, “necessariamente totalitario”, che inglobi tutte le “piccole vecchie autarchie” e le smantelli.

“Il vero crimine di Versailles è stato quello di aver sacrificato l’Europa”. La guerra ha permesso di delineare “un sogno futuro: l’unione doganale europea”, per fare del “mercato europeo un commercio interno”. Questa nozione di “comunità europea” non nascondeva la visione di un’intera costruzione europea organizzata a vantaggio della Germania. La differenza è di metodo: l’Europa manterrà l’economia gestita, la cui esperienza tedesca dimostra la sua superiorità rispetto all’economia liberale.

Sostituite “necessariamente totalitario” con “necessariamente democratico” e si tratta a grandi linee dello stesso schema di progetto unitario europeo così come s’è realizzato.

Che cosa si proponeva il modello nazista? Dopo la guerra la Germania farà progressi nell’organizzazione del mercato europeo. Di fronte all’America e all’Asia formerà un “grande spazio europeo”, i cui naturali complementi saranno l’Africa e la Russia europea. La Germania si dedicherà prima alla colonizzazione dell’Est, poi al continente africano, che sarà sfruttato a beneficio della comunità europea. Non ci sarà una chiusura ermetica degli scambi tra i tre “grandi spazi”, ma ciascuno avrà una vita economica propria e indirizzata.

Questo spazio economico sarebbe strutturato attraverso la definizione di un piano generale per la produzione europea, la stabilizzazione dei prezzi, l’unione doganale e la creazione di un grande organismo di compensazione centrale (antesignano della BCE), eccetera.

Anche i governi emigranti di Francia, Belgio e Paesi Bassi avevano le loro idee sul futuro europeo, e appunto il 21 ottobre 1943 firmarono un accordo finanziario per la “costituzione di un blocco economico, preludio a una politica di blocco che comprenda le nazioni che rappresentano la civiltà occidentale”. Tuttavia, durante la guerra, coloro che diffusero il progetto europeo più elaborato appartenevano al campo collaborazionista.

Gaston Riou, radicale, pacifista e un europeo convinto, figura non proprio di secondo piano all’epoca, optava per una forma federativa dell’Europa che implicava l’abbandono della sovranità: è necessario costituire “non una società delle nazioni d’Europa, ma un Reich d’Europa, gli Stati Uniti d’Europa, un vero Stato con unità doganale, monetaria, diplomatica, militare e navale”. Mi pare di aver letto qualcosa di simile recentemente sul Sole 24ore a firma di un ex presidente del consiglio.

La delusione provata di fronte all’inerzia parlamentare sulla questione europea nel periodo tra le due guerre, porta Riou a sostenere che “Ci sono altre forme possibili di democrazia oltre al parlamentarismo”. È noto l’anticomunismo di Riou, il suo odio per la Russia “eterna e imperialista”. In ogni caso, nella sua proposta non siamo lontani dalla specializzazione auspicata dal modello hitleriano: una Germania per l’industriale pesante, una Francia agricola, un’Italia artigianale e turistica, verrebbe da dire ... pastorale.

Riou, celebrando Enrico IV, “morto martire dell’idea europea”, invocava “un’Europa costituita come Repubblica o Impero, o in qualsiasi cosa che formi un organico – e all’interno del quale regnerà la pace”, chiedendo la creazione di “tre o quattro spazi economici”. Non è priva di contraddizione la sua idea: l’organizzazione economica dell’Europa deve bilanciare libertà e dirigismo, ma il suo commercio deve essere posto sotto il segno del libero scambio.

Anche altri propagandarono in quegli anni bellici l’idea di una doppia Europa, quella della potenza e quella del cavallo da tiro, un’Europa industriale del Nord-Ovest e un’Europa agricola del Sud e del Centro che dovevano essere unificate in particolare attraverso la diffusione del progresso tecnologico. Qualunque cosa ciò volesse dire.

Marcel Déat, già ministro e politico francese di lungo corso, dichiarerà nel mezzo del secondo conflitto mondiale: “La rivoluzione nazionalsocialista racchiude al suo interno una tale forza di rinnovamento economico e sociale che perfino una Waterloo non la fermerà”. La sua idea è di escludere Gran Bretagna (tutte le sue defezioni, in particolare il suo rifiuto di creare un comitato britannico per l’Unione doganale europea) e l’Unione Sovietica (per ovvi motivi) e propugna l’unione di ventisette nazioni europee: “Nostro dovere e via della salvezza è l’Unione Europea”.

Dagli albori del ‘900, in mezzo secolo di studi e pubblicazioni, queste molte “manine” devote all’idea dell’Unione Europea, come altri leader di associazioni europeiste, hanno fatto di più per portarla avanti rispetto a molti degli “statisti” che in seguito hanno occupato politicamente la scena in modo più ostentato.

All’epoca, non sono tutti per l’Unione Europea, la destra è paladina di un nazionalismo e regionalismo che vede nelle idee europeiste una minaccia contro l’unità nazionale e contro lo status quo. In Italia il dibattito più che marginale è clandestino (verrà ripreso molto dopo da degli spostati neonazisti). Non per la destra francese, con una visione sentimentale, radicata nella storia delle province francesi, la quale ispira un primo movimento negli ambienti tradizionalisti attorno al maresciallo Philippe Pétain. Altri si rendono consapevoli che questo schema rischia di offrire opportunità di annessione a Hitler in nome della storia e dei presunti diritti della razza.

La seconda guerra mondiale aveva accentuato il divario delineato negli anni Trenta all’interno delle associazioni europeiste tra due modelli di unione europea. C’è chi credeva di riconoscere il suo modello di Europa regionalizzata e integrata nel progetto di Hitler e chi, invece, affermava la linea liberale.

È in tale contesto storico che vanno lette le metamorfosi in cui si è evoluta l’idea europeista e le forme oggettive che poi ha assunto la sua costruzione, dalle molteplici proprietà e determinazioni, ma fondamentalmente elitaria, tecnocratica e di carattere irrimediabilmente antidemocratico. L’aspetto fondamentale di questi progetti e modelli di costruzione dell’unità europea è che essi in ogni caso avevano lo scopo di mantenere ben saldi i rapporti sociali di produzione capitalistici.

Su questo punto non c’è da farsi alcuna illusione, l’Europa unita è l’Europa del grande capitale e della sua classe sfruttatrice. Ciò non toglie che essa, pur dovendo affermare e favorire le condizioni di valorizzazione dei singoli capitali, deve tener conto anche degli interessi contrastanti degli Stati nazionali che la compongono, che a loro volta devono tener conto degli interessi contrastanti di tutte le classi sociali, strati, o ceti che vivono nel loro territorio.

È proprio questa contraddizione, data dalla concorrenza tra gli Stati nazionali, il loro conflitto tra interessi diversi, che minaccia l’Unione Europea. Non tanto oggi, ma quando una grave crisi finanziaria finirà per inghiottire molte illusioni sull’Eldorado capitalistico e le sue soluzioni tecnologiche. 

7 commenti:

  1. Su questo argomento, ti propongo un mio post. https://wordpress.com/post/erasmodue.wordpress.com/1015

    La tua trattazione è certamente più ampia e documentata, quindi te lo propongo come eventuale integrazione. È comunque interessante la visione dell'argomento dall'Inghilterra.

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  2. Penso che il link corretto sia questo
    https://erasmodue.wordpress.com/2017/07/03/1015/

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    1. più passa il tempo è più comprendo il tuo disagio
      sono favorevole all'unione, ma questa di oggi è altra cosa. e che vi sia un peso diverso dei paesi si può comprendere, ma l'egemonia di un paio di essi espressa con tale arroganza mette appunto a disagio.
      l'italia un ruolo potrebbe giocarlo, ma non abbiamo una classe borghese capace di esprimere una classe politica adeguata. Paradossale, ma a noi manca una borghesia degna di tale status e nome.

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    2. Non è la classe politica ma la burocrazia il problema. Credimi.

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  3. Post lungo. Al massimo verrà letto da una decina di persone! Al massimo!

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