Sento dire e leggo che “l’economia è ormati basata sull’informatica e non più sull’industria”.
Strano, perché tutto ciò di cui ho bisogno durante il giorno e la notte è prodotto
dall’industria. Come il computer con il quale sto scrivendo, l’elettricità che lo alimenta,
l’acqua che sto bevendo. Spesso, ancora, i nostri bisogni sono soddisfatti da piccoli artigiani,
come per il pane, o da aziende agricole locali, come per certe verdure, il latte e il vino. Anche
le nostre imprecazioni, quando le “cose” dell’informatica non funzionano a dovere, sono
prodotte a volte artigianalmente e altre volte industrialmente, come quando le “cose” che
non vanno si coalizzano tra loro.
Certo, molte di queste produzioni utilizzano le nove tecnologie, ma ad arrivare a dire che
l’economia è ormati basata sull’informatica e non più sull’industria mi pare eccessivo. La
guarnizione del rubinetto che ho acquistato venerdì scorso dal ferramenta, e tutta la miriade
di merci che c’erano in quel negozio, i vasi di colore e i pennelli che ha portato con sé
l’imbianchino, saranno anche stati prodotti con macchinari nei quali è presente molta
informatica, i famosi microchip, tuttavia si tratta di prodotti industriali, con tutto il carico
d’ingegno e altro lavoro umano necessari per fabbricarli. Anche il ginecologo, per quanto
dotato di un ecoscandaglio sofisticatissimo, resta pur sempre un essere umano che
manualmente su quella “cosa” là deve agire. Eccetera.
Certo, c’è molta informatica nella nostra vita quotidiana, basti pensare ai nostri inseparabili
cellulari, senza i quali ormai non si combina nulla. Sabato, ho pagato tramite internet i
bollettini per il rinnovo della patente di guida, ma poi ho dovuto stampare quegli stessi
bollettini con la mia vecchia stampante. Elettronica anche quella, ma costruita con materiali
plastici, con un cavo per l’alimentazione, il toner, la carta e così via. Mi pare esagerato dire
che “l’economia è ormati basata sull’informatica e non più sull’industria”. La mia auto, per
quanto vi siano presenti molte componenti elettroniche, funziona ancora a benzina. Petrolio,
navi, oleodotti, raffinerie, distributori. Insomma, industria. Produzione basata su molto
lavoro manuale e capitale “tradizionale”.
Gianīs Varoufakīs ci racconta della fine del capitalismo, della sua sostituzione con un tecno-
feudalesimo che si appropria del “reddito” (ossia di quote di quello che mi ostino a chiamare
plusvalore) prodotto dai capitalisti tradizionali che diventerebbero “vassalli”, e tutto ciò è
sostanzialmente vero: le grandi aziende tecnologiche, come Amazon e Google, hanno
iniziato a dominare i mercati, non solo come fornitori di beni e servizi, ma anche come veri
e propri “signori feudali digitali”, controllando l’accesso alle loro piattaforme e imponendo
le proprie regole.
C’è effettivamente da cogliere un’analogia con il feudalesimo, ma le analogie storiche non
vanno spinte oltre un certo limite. Non si deve “dimenticare” di dire che cosa effettivamente
distingue un modo di produzione da un altro. Non riguarda semplicemente le forme di
appropriazione del “reddito”, la sostituzione dei mercati tradizionali con piattaforme
digitali. Il capitalismo si sta trasformando rapidamente, ma non nelle sue leggi essenziali.
Prima di recitare il requiem per la scomparsa del capitalismo vorrei vedere il suo cadavere,
non mi basta il certificato di morte redatto da Varoufakīs, che lo data al 2008.
Anche Bocar Diallo, 31 anni, originario del Senegal, sarebbe d’accordo con me (ovvero io
con lui!) nel sottolineare le condizioni per la valorizzazione del capitale. Anche se forse non
conosceva le categorie marxiane di “valore” e “sostanza di valore”, sicuramente però
intuiva quelle di “plusvalore” e “lavoro concreto e lavoro astratto”, “lavoro produttivo e lavoro improduttivo”. Insomma, Bocar Diallo, pur con parole sue proprie, avrebbe saputo
intrattenerci sulla contraddizione centrale specifica del modo di produzione capitalistico,
che ha e avrà sempre origine nella sfera del lavoro.