sabato 10 dicembre 2022

Confindustria, banche, clero e monarchia nell'avvento del fascismo

 

La questione sociale e politica più decisiva in questo Paese riguarda, non da oggi, il rapporto tra i diversi ceti sociali e il fisco, ovvero tra chi paga troppe imposte e chi ne paga poche o nessuna, tra chi può evadere ed eludere il fisco e coloro che invece non possono sfuggire all’imposizione alla fonte.

La questione delle tasse e del saccheggio delle finanze pubbliche ha sempre accompagnato le vicende della storia patria italiana. Per esempio, la marcia su Roma fu poco più di una goliardata nel determinare gli eventi dell’ottobre 1922. I motivi che condussero al potere Mussolini furono decisamente legati a determinati aspetti economico-finanziari.

Scrive a tal proposito Renzo De Felice: «L’azione armata era un elemento importante del piano mussoliniano». Quanto determinante? «Non certo decisivo». Ma quante chance di successo aveva? «Militarmente il fascismo non aveva nessuna possibilità di affermarsi» [p. 348]. Né allora, né in seguito, come si vide il 25 luglio 1943, quando il Duce fu fatto salire dai carabinieri su un’ambulanza e messo sotto chiave. Non fosse stato per Hitler, che aveva ancora bisogno di quella maschera truce, la fine politica di Mussolini sarebbe stata segnata già quel giorno.

Anche i Savoia contavano i loro giorni, poi avrebbero comandato i tedeschi e quindi gli americani, questi ultimi per sempre.

Ab ovo, quale fu il ruolo del Vaticano, della monarchia e della neonata Confindustria nel far strada al fascismo? Scrive Renzo De Felice [p. 328], ad esempio, che «La Confindustria sino a che le fu possibile, sino alla vigilia cioè del conferimento da parte del re dell’incarico a Mussolini [...], non pensò mai ad un governo fascista, ma solo ad un gabinetto di coalizione al quale partecipassero anche i fascisti».

Scriveva nel 1963 Antonino Répaci nel suo La marcia su Roma, I, p. 338: «Sul finanziamento effettuato dagli industriali ai fascisti non è prevedibile la scoperta di fonti documentarie; nessuno si illude ovviamente di rinvenire le quietanze, che altrettanto ovviamente non vennero rilasciate».

Ernesto Rossi, propose un documento tratto dall’archivio Facta, un “riservato alla persona”, in data 19 ottobre 1922 da San Rossore, in cui il gen. Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del re, avverte il presidente del consiglio Facta:

«Persona che non vuole essere nominata e merita di essere ritenuta attendibile ha fatto avere a S.M. il Re notizie le quali danno conferma alle voci corse in questi ultimi tempi circa il colpo di mano che verrebbe prossimamente tentato su Roma. Notizie d’altra fonte, provenienti dall’ambiente bancario di Zurigo, che non sarebbe estraneo alla provvista dei fondi per il movimento di cui si tratta, sono parimenti venute a conoscenza di S.M. il Re e concorrono a dare credito alle informazioni della persona suddetta. Le date, indicate come possibili, sono quelle del 24 ottobre e del 4 novembre. In ogni modo prima dell’apertura della Camera S.M. il Re mi dà incarico di farle queste comunicazioni per quel valore che possono avere».

Commentava nel 1955 Ernesto Rossi: «ancora oggi le banche svizzere sono la strada preferita dei Grandi Baroni, che desiderano far perdere ogni traccia della provenienza dei quattrini con i quali comprano gli uomini politici e finanziano giornali e partiti» [p. 79].

«Nelle due settimane precedenti la mobilitazione generale fascista, l’intero stato maggiore della Confindustria fu al fianco di Mussolini. Il 17 ottobre il prefetto di Milano scrisse al presidente del consiglio [Facta] una lettera in cui lo informava che una commissione di industriali (Targetti, Olivetti, Benni, Pirelli, Conti ed altri minori) gli avevano chiesto udienza per esporre le loro preoccupazioni sulla situazione finanziaria e sul fascismo, che ritenevano “dovesse essere subito incanalato”. Qualsiasi ritardo avrebbe provocato “una crisi gravissima di cui non si potevano calcolare le conseguenze”. Gli industriali avevano pregato il prefetto di far presente all’on. Facta il loro stato d’animo: essi volevano al governo “uomini forti che risollevassero la nazione dal marasma”» [p. 86].

Nel 1920, Francesco Saverio Nitti, già due volte ministro, assunse l’incarico di presidente del consiglio. La sua vicenda governativa fu in seguito ricordata da Amedeo Bordiga con queste parole: «L’esperienza italiana insegna che il democraticissimo governo Nitti fu in sostanza quanto di meglio la borghesia italiana poteva esperire in sua difesa, e quindi quanto di più reazionario».

In realtà Nitti si era adoperato per una rigida politica di controlli annonari, tentando di introdurre per decreto il prezzo politico del pane, decreto che gli costò le dimissioni, ma questo fu solo un pretesto per i gruppi organizzati del malaffare di Stato per screditarlo e indurlo a lasciare.

Fu grazie a Nitti (la cui opera come ministro del Tesoro dopo Caporetto fu rilevantissima sotto ogni profilo) che si cominciarono a mettere in ordine i conti pubblici e soprattutto a congedare una massa enorme di ufficiali (in pratica non c’era ancora stata sotto Orlando, suo predecessore, la smobilitazione), i quali ammontavano a 117.148 e dovevano essere ridotti dell’80%.

La smobilitazione degli ufficiali e la questione di Fiume, portata avanti da gente senza scrupoli e da altri elementi completamente fuori di testa, strumentalizzata da chi nella destabilizzazione aveva solo da guadagnarci, furono grane non lievi per il governo Nitti.

Nitti riformò anche il sistema elettorale con il proporzionale, grazie al quale Partito socialista e Partito popolare si rafforzano alle elezioni del 1919. Egli proveniva dal Partito Radicale storico, ed era considerato lo statista liberale più qualificato in prospettiva di una soluzione della crisi postbellica.

Gli avvenimenti che portano, in giugno, alla caduta del suo governo sono esemplificativi del ruolo svolto dalla finanza e dall’industria nell’indirizzare l’azione politica.

Il gruppo Ansaldo costituiva la più grande impresa industriale italiana dell’epoca, con 100 fabbriche e 100.000 addetti. L’impresa, controllata dai fratelli Perrone, era enormemente esposta con le banche, in particolare con la Banca di Sconto (Bansconto); inoltre soffriva per la forte contrazione delle commesse statali a seguito della fine delle ostilità belliche.

Fu necessario procurarsi della liquidità e a tale scopo mettere in atto il solito gioco: acquisire il controllo di una società o di una banca con patrimonio da saccheggiare. Fu scelto di dare la scalata alla banca Commerciale Italiana (Comit). Le azioni della banca passarono in cinque giorni da 1.250 a 2.450 lire.

Per farla breve, la scalata non andò in porto e i fratelli Perrone vendettero le 200.000 azioni in loro possesso ad una holding controllata dalla Comit. A quel punto si doveva far pagare caro a Nitti il suo rifiuto di modificare la legge che avrebbe consentito ai Perrone di avere la maggioranza nel nuovo consiglio di amministrazione.

Nelle sue memorie l’uomo politico racconta che due banchieri della Comit chiesero d’incontrarlo, prospettandogli la necessità di misure economiche drastiche per ristabilire la fiducia dei mercati finanziari interni ed esteri relativamente alle finanze pubbliche italiane. Infatti, a Nitti erano stati già rifiutati ulteriori aiuti finanziari da parte inglese, rendendo precaria la posizione del suo governo mentre la situazione sociale si faceva sempre più seria.

Tali misure suggerite dai banchieri consistevano essenzialmente nell’abolizione del prezzo politico del pane. In cambio, i due banchieri promisero di indurre i loro colleghi esteri a concedere nuovi prestiti. Nitti presentò alla Camera un progetto di legge per l’abolizione del prezzo politico del pane e fu battuto, soprattutto perché a mancargli furono i voti decisivi del PPI, il partito cattolico. Secondo Nitti, la Comit si fece promotrice, in quell’occasione, con ogni sforzo, di raccogliere voti contrari alla proposta di legge.

Nitti nelle sue memorie (Rivelazioni, 1948) smentisce la connivenza con i gruppi bancari, sostenendo anzi che essi furono la causa della sua caduta: «... la lotta dei gruppi bancari che volevano l’uno contro l’altro il predominio dello Stato che io non volevo dare ad alcuno e che poi finirono per essere entrambi contro di me, turbava la vita dello Stato» (p. 543).

La caduta del gabinetto Nitti, ridusse drasticamente la possibilità di una soluzione della crisi e aprì la strada a Giolitti, nel mentre si stava «formando uno “stato fascista nello Stato” in gran parte dell’Italia centro-settentrionale, con la connivenza delle autorità governative locali e centrali, incluso lo stesso Giolitti e il suo ministro della Guerra, Ivanoe Bonomi» (Douglas J. Forsyth, La crisi dell’Italia liberale, Corbaccio, pp. 275-76).

Prima di passare la mano, Nitti chiese sostegno in Vaticano (aveva a suo tempo intrapreso colloqui segreti con il card. Gasparri in vista di una conciliazione sulla questione romana, anche se c’è da credere che il Vaticano cercasse contropartite decisamente più favorevoli da quelle prospettate dal governo italiano), ma senza successo.

I suoi successori, cioè Giolitti, Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e il «deficiente» Facta (feb. – ott. 1922), perseguirono una linea di politica economica essenzialmente tesa alla stabilizzazione finanziaria e monetaria ponendo in secondo piano la ricerca di un sostegno politico e parlamentare da parte dei partiti di massa (sinistra e partito popolare).

Fu Giolitti a smantellare il sistema nittiano dei monopoli fiscali e dei controlli economici statali (in realtà poco efficienti), frenando il ricorso delle amministrazioni locali (moltissime controllate da socialisti e partito popolare) al credito e ponendo fine alla connivenza tra governo e il trust Ansaldo-Bansconto, mantenendo invece ottimi rapporti con la Comit.

In tal modo, l’azione di governo di Giolitti, pur con decisivi progressi verso il risanamento dei conti pubblici, venne a perdere soprattutto il sostegno cruciale del partito cattolico, guidato da Luigi Sturzo. Infatti, il salasso cui furono sottoposte le classi più deboli scontentò i partiti di massa senza guadagnare l’appoggio delle destre, come sempre accade in simili frangenti.

C’è anche da sottolineare un altro fatto non secondario, ovvero l’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali (Nitti, nel 1920, si era opposto alla nominatività dei titoli). Oltre che dai soliti gruppi industriali e finanziari, la legge era molto temuta dal Vaticano, che aveva in Italia la quasi totalità dei suoi investimenti e possedeva di preferenza titoli al portatore, così come era temutissima la norma fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di sangue.

Fu questo il motivo che «obbligò – secondo Ernesto Rossi – Giolitti a presentare le dimissioni». Ma poco prima, il 9 giugno 1921, il suo gabinetto promulgò un decreto contenente norme per la registrazione dei titoli. Con il nuovo governo presieduto da Bonomi, tale norma fu subito sospesa, ma non abrogata. Entrambi i successori di Giolitti, Bonomi e poi Facta, non mostrarono la volontà di cancellare del tutto le misure giolittiane.

Nella crisi politica e ministeriale successiva alla caduta di Giolitti e fino all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose ad un possibile nuovo governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito popolare di aderirvi. Il costo di questo atteggiamento fu la paralisi parlamentare e, infine, la crisi istituzionale.

Come rileva nel suo libro Ernesto Rossi, l’Osservatore Romano del 27-28 febbraio 1922 si rallegrò perché la più lunga crisi ministeriale che si fosse mai avuta in Italia si era finalmente conclusa con la formazione di un governo di coalizione, presieduto dall’ on. Facta, dal quale erano esclusi soltanto i socialisti. In risposta ai giornali che avevano accusato la Santa Sede di essere stata la principale responsabile della eccezionale lunghezza della crisi, col suo veto al ritorno di Giolitti al governo, il giornale del Vaticano rispose che «la Santa Sede era, voleva e doveva rimanere completamente estranea alle questioni di politica italiana, sia estera che interna, come ad ogni partito di ogni colore».

Scrisse nel 1947 Benedetto Croce:
«L’azione della politica vaticana fu allora perniciosa per l’Italia e aprì le porte al fascismo impedendo ogni ritorno del Giolitti al potere. Su di che potrei aggiungere particolari, come d’un colloquio che l’on. Pozio, sottosegretario alla presidenza con Giolitti e a lui devotissimo, ebbe con il card. Gasparri, che rudemente respinse ogni approccio d’intesa: quel che più aveva inferocito la Chiesa era la legge giolittiana della nominatività dei titoli al portatore, nei quali molto denaro degli istituti ecclesiastici era investito».

Il 12 luglio 1922 le squadre fasciste, libere di agire, attaccarono il quartier generale delle organizzazioni cattoliche a Cremona. Il PPI si ritirò dal governo Facta, provocando l’ennesima crisi. L’ala riformista del Partito socialista, decise di opporsi al divieto della dirigenza socialista di formare coalizioni con formazioni non socialiste, annunciando l’appoggio ad un governo antifascista, mentre invece Giolitti scoraggiò il suo gruppo di partecipare ad un governo con popolari e socialisti in chiave antifascista. Giolitti e altri liberali preferivano un governo con i fascisti, per poi, credevano, poterli manovrare.

Vi erano però forze che preferivano una politica nettamente conservatrice con a capo Mussolini, ossia di preferenza una dittatura piuttosto che una coalizione riformista. Un nuovo governo Facta ebbe vita difficile e breve, ossia fino al colpo di mano di Mussolini con la “marcia su Roma”. Il 29 ottobre anche il senatore Luigi Albertini, direttore del Corriere della sera, si trovava presso la prefettura di Milano (se ne pentirà anni dopo, quando sarà costretto ad opporsi a Mussolini e a cedere a Crespi, pur in cambio di ingente corrispettivo, il controllo del quotidiano milanese) assieme ai capoccioni di Confindustria, per far pressioni sul re (che aveva a cuore di salvare la monarchia), affinché non indugiasse ad incaricare Mussolini di formare il nuovo governo.

Sotto il titolo: «La soddisfazione del Vaticano per la soluzione delle crisi» il Popolo d’Italia del 2 novembre del 1922 scrisse:

«Durante i giorni del travaglio nazionale, che condussero all’avvento al potere dell’on. Mussolini, nessun allarme si ebbe nei circoli più vicini al Pontefice, il quale, quando gli avvenimenti si sono avviati verso il loro sbocco normale, non ha celato agli intimi il Suo compiacimento nel vedere l’Italia dirigersi verso una rivalorizzazione delle sue migliori energie».

Il 10 novembre, lo stesso giorno in cui Il Popolo d’Italia dava la notizia che il consiglio dei ministri avrebbe abrogato la legge sulla nominatività dei titoli, il suo corrispondente da Roma comunicava:

«Per quanto le sfere responsabili del Vaticano mantengano il loro tradizionale riserbo intorno alla politica del nuovo gabinetto italiano, negli ambienti dei Palazzi Apostolici non si nasconde la simpatia e il senso di fiducia determinato dai primi atti dell’on. Mussolini».

Conversione in legge del R.D. legge 10 novembre 1922, n. 1431, che abroga la legge 24 settembre 1920, n. 1297, sulla nominatività obbligatoria dei titoli e l’art. 2 del decreto legge 22 aprile 1920, n. 496 - Atto C.1848 del 10 novembre 1922. Tra i primi firmatari: Stefano Cavezzoni, Alberto Di Stefani, Benito Mussolini.

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Renzo De Felice, Mussolini il fascista, Einaudi, I, 1974;

Ernesto Rossi, I padroni del vapore, Caos edizioni, 2001.

3 commenti:

  1. Di Ernesto Rossi lasciami segnalare anche "Il manganello e l'aspersorio", frutto di un estensivo lavoro di ricerca di fonti, da cui trasse una marea di citazioni. Vi furoreggiano quelle da La Civiltà Cattolica, organo di coloro che oggi sono padroni indiscussi e, suppongo, perpetui del Vaticano.

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  2. E di nuovo grazie per questi articoli\post
    Pietro

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