giovedì 29 dicembre 2022

Abbi pietà di loro, abbi pietà delle parole

 

“Abuso”, “comportamento scorretto”, è in questi termini che la Chiesa definisce nei suoi documenti ufficiali gli stupri e le altre aggressioni sessuali commesse da non pochi dei suoi preti. Al di là delle vicende che scuotono il mondo cattolico, si pone la questione delle parole che dovrebbero o non dovrebbero essere usate per parlare di cose che inquietano. Per evitare di qualificare con precisione i fatti, usiamo espressioni che evocano la realtà senza spiegarla chiaramente. Suggeriamo senza nominare.

Mi riferisco a una diffusa codardia nell’uso delle parole: provate, per fare un esempio fin troppo banale, a riferirvi a qualcuno con la parola “vecchio” anziché “anziano” (sia mai a una signora!). È diventato obbligatorio far uso di formulazioni falsamente caute per eludere la crudezza del mondo, per cui il netturbino è diventato operatore ecologico, una domestica una colf e una guerra (prescindendo dall’opinione si abbia su di essa) una più neutrale “operazione speciale”.

La proliferazione di espressioni sterilizzate ha portato all’istituzione del divieto di utilizzare parole diverse da quelle accettate da questa nuova morale. Questa contorsione per mascherare la realtà è una censura, che attacca prima il vocabolario per poi controllare il pensiero. È sconsigliabile pronunciare tale e talaltra parola perché in realtà è sconsigliabile pensare tale e talaltra cosa.

È stato quasi rimosso dalla memoria collettiva il rapporto stabilito tra la SARS-Covid2 e la comunicazione pubblica, in particolare quando inedite restrizioni delle libertà e volontà personali sono state veicolate e rese potabili con l’uso di una terminologia anglosassone. Come, per esempio, nel caso del confinamento coatto che è diventato, non solo per comodità espressiva, un più asettico “lockdown”, oppure quando per l’attestazione dell’obbligo vaccinale serviva esibire un ecologico “green-pass”, il “contact tracing” attraverso l’app Immuni, e così via.

Le parole fanno paura, anche se non siamo ancora allo stadio immaginato da Orwell in 1984, dove il dizionario viene epurato dai termini che vanno contro l’ideologia ufficiale, ma è comunque inquietante vedere questo fenomeno in aree che non avremmo mai pensato fossero troppo colpite. Anche se i termini tabù non sono sempre piacevoli da ascoltare, esistono e dovremmo avere il diritto di usarli come meglio crediamo. Nessuna legge che vieti di pronunciarli è stata votata, per il momento, ma si comincia col distillare questo divieto che poi passa all’uso comune, e alla fine diventa regola.

Fin dove arriverà la paura delle parole? Alcuni media la settimana scorsa hanno riferito che Elon Musk ha affermato di voler cedere Twitter a “qualcuno abbastanza sciocco da assumere il suo posto di CEO”. Questa stessa frase è stata tradotta in modo diverso ma in realtà parlava di “qualcuno abbastanza pazzo”. Uno sciocco, tuttavia, non è la stessa cosa di un pazzo. Anche quel coglione di Musk può capirlo.

Come si vede dal mio esempio testé esplicitato, la paura delle parole è tanto più sconcertante in quanto, nelle discariche denominate social network, accade esattamente il contrario, laddove leggiamo quotidianamente ingiurie di ogni tipo, insulti razzisti, omofobi, misogini o antisemiti, il tutto farcito con il più classico intercalare di colorite volgarità. Più espressioni inventiamo per addolcire la durezza della realtà, più si scatena la violenza verbale. Volendo controllare tutto, si finisce per non controllare nulla.

Qui entriamo nel tema dell’opposizione tra linguaggi autorizzati e non autorizzati. È precisamente il confine tra la critica borghese, della quale ho offerto qui sopra un esempio, e una critica basata sulla lettura materialistica e storica della realtà. Forse in un prossimo post dirò qualcosa a proposito dello stesso tema, sul rapporto tra linguaggio e coscienza, tra coscienza e inconscio, che il freudismo ha così tanto frainteso fino a farne una caricatura.

Nessun commento:

Posta un commento