Paolo Bricco è un giornalista del Sole 24ore, cura una rubrica dal titolo “A tavola con ...”. Di volta in volta, con la scusa d’intervistare dei personaggi più o meno noti, scrocca un abbondante pranzo. Nel giornale di ieri, oltre a raccontarci uno strepitoso bis di risotto al radicchio, dà voce a un nobiluomo che si presenta così: «Mi chiamo Carandini. In me coesistono la borghesia e l’aristocrazia».
Il nobile borghese è il notissimo archeologo Andrea Carandini, che apre il gioco con una citazione: «Ogni tanto penso a me come a Hanno, l’ultimo discendente dei Buddenbrook, la famiglia raccontata da Thomas Mann. Il destino della borghesia è di consumarsi. Non è mai esistito un ceto sociale nella storia che, a fronte di una vitalità tanto grande, abbia concepito il gene di una critica così distruttiva e abbia coltivato un odio così feroce, intimo e autoriflesso».
La vicenda di Hanno è raccontata nel capitolo diciottesimo, dal quale in origine prese avvio il lavoro che condusse al romanzo quale lo conosciamo. È la storia di un ragazzino triste e insofferente per i metodi scolastici coevi e poco attratto dal latinorum. Ultimo discendente maschio della casata dei Buddenbrook di Lubecca, il suo destino fu, come quello di suo padre, semplicemente segnato dalla sfiga, e proprio nell’epoca del trionfo della borghesia e non già della sua consunzione.
Stia tranquillo Carandini, per quanto sia preda del proprio nichilismo, la borghesia odierna ha conservato il senso degli antichi valori, soprattutto quelli monetari, azionari e immobiliari. Non è per caso che il vecchio archeologo vanti compiaciuto di abitare in un palazzo dove a suo tempo il padrone della Fiat riceveva con regalità illustri ospiti.
L’intervistato rivela quale fu il “dolore più grande” della sua vita: l’amore per una sua allieva. Evidentemente non corrisposto. Per superare la crisi amorosa e l’irrequietezza del vivere agiato, il Nostro andò in analisi da Ignacio Matte Blanco, psicanalista cileno con adeguato tariffario.
Penso sia d’interesse riportare per esteso quanto afferma Carandini: «La sua capacità di analizzare il dualismo tra conscio e inconscio e l’interazione fra il pensiero logico aristotelico, proprio della dimensione conscia, e il pensiero che lui chiama simmetrico e in cui la logica tradizionale si soglie superando le categorie classiche dello spazio e del tempo, è stata fondamentale per strutturare la mia identità, per darmi comprensione e per aiutarmi nell’accettazione della vita, con i suoi dolori e le sue felicità».
A parte questo tracciamento freudiano, il nobile intervistato non manca di rivelarci quale fu “l’errore più grande” della sua vita: l’iscrizione al PCI. Ormai non c’è quasi ex “picista” che non ripudi il proprio passato, che non gridi al mondo la propria apostasia. A convincerlo ad entrare nel PCI, racconta, fu Giorgio Napolitano. Pertanto, alla luce di tale patrocinio, si possono comprendere sia i motivi d’ordine pratico che lo convinsero di aderire al Pci, e sia quelli d’ordine psicologico della successiva abiura.
aDsit iniuria verbis
RispondiEliminaSi apprezza la condiscendenza di un aristocratico di pura schiatta, disponibile a accettare i consigli di un bastardo.
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