La crisi della sinistra è figlia di tante cose, non meno della sua crisi teorica. Come diceva Lenin, la prassi senza teoria è cieca, ma la teoria senza la pratica è muta. Deve sussistere un rapporto dialettico tra le due cose. La sinistra già prima ci vedeva poco, ma uscita dall’implosione dell’Urss divenne completamente cieca ed è subito diventata afasica, nel senso che non ha più saputo fare analisi e dare risposte sul piano partico, ossia un dire e fare che fosse “di sinistra”. La sinistra si è trasformata in semplice apparato autoreferenziale, elettorale e di gestione del potere, orto concluso. Il fenomeno, ripeto, era già presente e non solo sottotraccia, ma in seguito al “crollo di Berlino” è diventato totalitario: gli ex comunisti sono stati ben lieti di dichiararsi tutti liberali, e disponibili a imbarcare chiunque, soprattutto arrivisti, narcisi e cialtroni, insomma il peggio che si potesse.
Invece di elaborare una nuova teoria, di ripensare il marxismo cristallizzato nel dogmatismo, si è optato per una decostruzione di tipo derridiano, dalla quale sono risultate solo macerie. Si è smesso di ragionare su quello che succede e non si è più avuta una visione storica. Sposando il prêt-à-porter liberal-democratico, ciò ha significato uno svuotamento critico e la sostanziale accettazione del sistema di produzione/riproduzione borghese come un dato immutabile, suscettibile semmai di continui adattamenti sulla base di estenuanti compromessi. Ciò che è buono per i padroni della società è buono anche per tutti gli altri, se ne resta qualcosa. C’è la globalizzazione, la grande finanza, ... , non possiamo farci niente. Ma arriva il momento che non c’è più posto per i giochini verbali e di gruppo, perché esiste qualcosa che si chiama realtà e presenta immancabilmente il conto.