È sotto gli occhi di tutti il successo del modello economico fondato sul capitale privato e la libera iniziativa, ossia ciò che costituisce il vanto della società borghese che di tale modello è l’espressione storica. Ogni tentativo finora compiuto di superare questo modello dal lato della socializzazione dei mezzi di produzione ha prodotto fallimenti.
Quale potente e inarrestabile dinamica è alla base di questo straordinario risultato del modello capitalistico? La varietà delle risposte in campo di spreca, ma quella che conta è questa: la necessità di valorizzazione del capitale, il processo di accumulazione e la lotta tra i diversi capitali per il profitto, comporta l’incessante rivoluzionamento della produzione, spingendo il capitale a sussumere a sé la scienza per aumentare, con l’impiego di nuove tecnologie e migliori tecniche, la produttività del lavoro e abbattere i costi di produzione.
Rendere i salariati forza crescente di valorizzazione del capitale è stata la più essenziale molla dello sviluppo della scienza e della tecnologia che ha portato la società borghese ai trionfi di oggi. Se non s’intende questo e s’insiste, per contro e quale alternativa al capitalismo, nella mera riproposta della statalizzazione dei mezzi di produzione, significa restare appesi alle ubbie del passato, peraltro in opposizione a Marx.
Vero è che questa “molla dello sviluppo” contiene in sé, come legge di natura, la sua negazione, che già i meno sprovveduti tra i borghesi non mancano di cogliere nella sua realtà sociologica, alcuni con una certa apprensione. Ma non è questo il tema del post.
E però i mezzi di lavoro, tanto tecnologicamente sviluppati, non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici dei maledettissimi rapporti sociali nel cui quadro viene compiuto il lavoro. Su questo punto le mistificazioni resistono come recidive virali.
Il vaniloquio corrente di destra, di sinistra o semplicemente orfano, sostiene che a far la differenza tra i ricchi e i poveri sia il denaro. E ciò risponde all’evidenza, anche se spesso ciò che è troppo lampante acceca.
Ed infatti, la vera differenza la fa il comando sul lavoro. Il povero non è tale semplicemente perché di suo non ha denaro, ma perché per vivere deve vendersi a un padrone (le cui forme di personificazione possono mutare) o vivacchiare di “cittadinanza” ed elemosine pelose. Ciò che in genere il povero non accetta o contesta è una situazione abietta o servile, ma di buon grado si assoggetta a un rapporto di dipendenza comodo e liberale.
Già Bernard de Mandeville ai primi del secolo XVIII sapeva che in una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi. E sapeva anche bene che per rendere felice la società dei benestanti è dar loro influenza e autorità sufficienti su coloro che lavorano per essi, e per render a sua volta il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante e sia povera.
Sul concetto di povertà basta richiamarsi all’economista, cioè l’apologeta del libero mercato che annuncia, dati plurimi alla mano, che la povertà decresce e il benessere delle masse sale a livelli mai raggiunti prima, specie nei paesi dov’era in uso la ciotola di riso. Si tratta, al pari di altre figure professionali, di persone indottrinate che, per dirla con il Grande Vecchio, per educazione, tradizione, abitudine, riconoscono come leggi naturali ovvie le esigenze di questo sistema. Per tale motivo sull’ignoranza non mi dilungo, sarebbe del resto difficile da far intendere all’economista erudito e al giornalista sociologo in che cosa essa si manifesti effettivamente.
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