Nel luglio di 75 anni fa, si concludeva la conferenza
di Bretton Woods. I partecipanti, i rappresentanti delle potenze alleate ancora
impegnati nelle fasi finali della guerra contro Germania e Giappone, erano
perfettamente consapevoli che nelle loro deliberazioni era in gioco un nuovo
ordine economico e la sopravvivenza del capitalismo. Infatti, quella conferenza
avrebbe svolto un ruolo chiave nel gettare le basi per il ristabilimento
dell'economia mondiale dopo la devastazione di due guerre mondiali e la Grande
Depressione degli anni '30, aprendo così la strada per il boom postbellico (*).
Gli Stati Uniti, le cui capacità industriali erano
cresciute nel corso della guerra a tal punto che nel 1945 rappresentavano circa
il 35% della produzione mondiale, furono in grado di usare la loro forza
economica per ricostruire il capitalismo mondiale. Non lo fecero per altruismo,
ma perché la stabilizzazione del capitalismo in Europa e in Asia si adattava
agli interessi americani. Se l’Europa e il resto del mondo fossero stati
riportati alle condizioni degli anni Trenta, l'economia americana, dipendente
dall'espansione del mercato mondiale, avrebbe dovuto affrontare un disastro
anche più grave di quello vissuto nel decennio precedente.
Parlando a conclusione dell'incontro, il segretario
al Tesoro americano Henry Morgenthau riassumeva: “Siamo arrivati a
riconoscere che il modo più saggio ed efficace per proteggere il nostro
interesse nazionale è attraverso la cooperazione internazionale, vale a dire
attraverso lo sforzo unito per il raggiungimento di obiettivi comuni”.
I timori che spingevano verso questo orientamento
furono espressi nel marzo del 1945 in un discorso al Congresso dal
sottosegretario di Stato agli affari economici William Clayton. Dirigendo le
sue osservazioni contro i sostenitori delle tariffe doganali elevate, avvertiva
che “la pace nel mondo sarà sempre gravemente compromessa dal tipo di guerra
economica internazionale che è stata condotta così amaramente tra le due guerre
mondiali”, e che "la democrazia e la libera impresa non potranno sopravvivere
a un'altra guerra mondiale”.
Ciò descrive precisamente la strada sulla quale è
avviato il mondo: si approfondiscono i conflitti economici e le minacce di
guerra, soprattutto da parte dall'imperialismo americano. Infatti, a tre quarti di secolo di distanza da quella conferenza,
nel momento del suo massimo trionfo, il sistema capitalista mondiale sta
affrontando una serie di crisi non meno gravi di quelle che contrassegnarono il
periodo tra le due guerre mondiali.
Da oltre due anni, gli Stati Uniti stanno portato
avanti un'escalation di guerra economica, colpendo allo stesso modo alleati e
rivali imponendo o minacciando tariffe doganali. Si tratta delle stesse
politiche tariffarie che crearono le forti tensioni commerciali degli
anni Trenta e che gli architetti dell'accordo di Bretton Woods avvertirono
avrebbero portato a una nuova catastrofe.
Va chiarito che la crescente guerra commerciale e la
minaccia alla stabilità e pace mondiale non sono il prodotto della psicologia o
della mentalità di un particolare gruppo di politici alla Donald Trump, ma si tratta
bensì di processi radicati nella profonda e irreversibile crisi dell'imperialismo
americano, prodotto esso stesso dell'evoluzione storica del sistema
capitalistico mondiale nei tre quarti di secolo da Bretton Woods. Se a ciò si aggiunge l'intraprendenza e l'aggressività dell'imperialismo cinese, la sempre accesa criticità mediorientale, non c'è da stare tranquilli.
(*) Lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, aveva
posto in luce che la guerra era il risultato della contraddizione tra lo
sviluppo dell’economia mondiale e la divisione del mondo in Stati-nazione
rivali. Tale contraddizione è stata alla base anche del II conflitto mondiale in
scala anche maggiore, così come, e lo si è visto in seguito, di tutti quei
conflitti aperti o sottotraccia che si sono localmente combattuti fino ad oggi.
Difendendo i propri interessi, nella lotta per i mercati, i profitti e le
risorse, ciascuna grande potenza crea le condizioni che portano inevitabilmente
alla contrapposizione e al conflitto.
Il sistema di Bretton Woods aveva lo scopo di
minimizzare i conflitti tra le maggiori potenze capitaliste. Difendendo gli
interessi dell'imperialismo britannico, l’economista John Maynard Keynes
propose la creazione di una valuta internazionale, il bancor, per finanziare transazioni commerciali e d’investimento
globali. L’essenza del piano Keynes era di rendere gli Stati Uniti soggetti
alla stessa disciplina delle altre maggiori potenze, limitandone così il suo
dominio.
Il piano bancor
è stato categoricamente respinto e il dollaro USA è stato posto a base di un
sistema monetario internazionale rinnovato. Nonostante tutta la retorica sulla
necessità di una collaborazione internazionale, l’egemonia americana è stata
sancita dall'accordo di Bretton Woods. L'unico vincolo per il dollaro consisteva
nella scambiabilità con l'oro in rapporto di 35 dollari per oncia (circa 1,1 dollari per grammo).
La contraddizione tra economia mondiale capitalistica
e sistema degli Stati-nazione non è stata superata, ma solo momentaneamente aggirata
con il sistema di Bretton Woods. Sarebbe tornata in superficie.
Poiché nello stesso post si parla di tariffe e di Keynes, può essere utile ricordare che Keynes si ritrovò a essere favorevole al protezionismo quando faceva parte di una commissione governativa che aveva lo scopo di contrastare la crisi nata nel 1929. Il ragionamento era identico a quello oggi adottato da Trump: ottenere maggiore occupazione interna. Keynes, che un po’ si vergognava di contraddirsi, specificò che mai avrebbe avallato l’idea di tariffe permanenti (long-term), ma che nel breve potevano servire. La stessa cosa che dice Trump. La cosa crea imbarazzo tra i neokeynesiani, ossia il gruppo di intellettuali più ridicolo dal tempo della scapigliatura lombarda.
RispondiEliminaApprezzo il tuo commento e visto che sei un tipino vispo e intelligente rispondo per le lunghe.
EliminaÈ chiaro che difendono acriticamente i fondamenti del sistema capitalistico in generale e quelli nazionali di riferimento in particolare. Qualunque sia il livello di consapevolezza proprio del singolo economista (ma ciò vale anche per altre figure), il collante sono gli interessi di classe e l’esimente l’ideologia stessa che li supporta. Se Keynes fosse nato trent’anni dopo, in Russia, sarebbe potuto diventare un intellettuale di rigida osservanza dei cosiddetti e fasulli principi del marxismo-leninismo. Il nostro destino personale dipende da una molteplicità di fatti casuali, ma alcuni di essi sono assai determinati: l’epoca, il luogo, la classe sociale di appartenenza. A cascata viene l’ambiente familiare, gli studi, le frequentazioni, ecc.. Tutto ciò, mi rendo conto, è ovvio, ma spesso viene trascurato.
Sono tra le poche persone che in Italia si siano prese la briga di leggere (per davvero) la Teoria generale …; ebbene, tratta di aspetti relativi alla sfera della tassazione e della circolazione; vi è sottesa ad ogni pagina una falsa coscienza che non può lasciare sconcertato ogni lettore che abbia avuto a che fare, non dico con la critica dell’economia politica marxiana, ma semplicemente con i classici dell’economia politica. Quanto poi al “moltiplicatore” e alla “domanda aggregata”, vedi:
https://www.nuovaresistenza.org/2016/02/se-il-pesce-non-abbocca-non-e-colpa-del-pesce/
Se pensiamo che l’economia politica borghese non ha mai fatto un’analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale e ancor meno nella formazione del saggio generale del profitto, ossia che non ha mai fatto distinzione fra plusvalore e profitto (malgrado ciò che si crede, il cosiddetto “valore aggiunto”, di cui parlano gli economisti, non è precisamente assimilabile al concetto di plusvalore e nemmeno di profitto); che per quanto riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto ha constatato l’esistenza del fenomeno e si è data da fare per spiegarlo con tentativi contraddittori, ma date le premesse non vi è riuscita; se insomma per motivi del tutto ideologici e quindi d’interesse di classe vive in uno stato confusionale totale e permanente, allora non ci si deve più meravigliare del fatto che essa non sia mai riuscita a trovare risposte adeguate sulle cause REALI e OGGETTIVE della crisi, e anzi propenda arrampicarsi sugli specchi della psicologia sociale borghese, facendo perdere alla crisi il suo carattere capitalistico per assumerne uno “umano”.
oh, gli scapigliati furono comunque un sasso nello stagno, e secondo me, cosa che conta più di tutte, si divertirono assai assai
EliminaE poi..
RispondiEliminaE poi dicono che Marx era un utopista , millenarista.
Non so più dove l'avevo letto, ma me lo ero appuntato.
Creazione di un mercato mondiale,estensione del modo capitalistico di produzione nell'intero pianeta,centralizzazione del capitale e concentrazione dei mezzi di produzione,maturazione del capitalismo in imperialismo,imputridimento parassitario,burocratizzazione, militarizzazione ect, ect,
In altre parole legge dello sviluppo..
Beh, chi ha da confutare ,confuti, forza fatevi avanti che a me (mi) viene da ridere.
Beata utopia millenaristica.
In casa nostra ,poi, Si tav, NoTav..burloni !
caino
Perché se un medico cerca di alleviare le sofferenze del malato senza promettere di renderlo immune per sempre né dalle malattie né dalle sofferenze, va bene, se un economista adotta lo stesso atteggiamento verso la società, non va bene ?
RispondiEliminanon m'interessano gli omeopati
Eliminal'omeopatia è provato scientificamente non funzionare. La sua risposta significa che ritiene che all'interno del capitalismo non esista per principio la possibilità che una qualsiasi particolare politica economica possa migliorare le condizioni materiali dei cittadini e quelle dell'economia ?
Eliminanon funziona così, nel senso che le analogie vanno bene fino a un certo punto, non si possono tirare in lungo come chewingum
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