Quando leggo un saggio di politologi anglosassoni, mi
si presenta alla mente un’immagine stereotipata (ma non troppo), dove l’autore,
in piedi o seduto, ha un grosso bicchiere di cristallo in mano dove
galleggiano, in un liquido ambrato che promette delizia, dei cubetti di
ghiaccio. Altri, con lo stesso bicchiere, sorseggiano e chiacchierano accanto a
lui. Sono tutti maschi, bianchi, elegantemente casual, istruiti, pragmatici, alcuni
alteri e altri affabili (per quanto lo consenta il PhD). Un tempo fumavano tabacco
odoroso con la pipa, o lunghi sigari. Ora non usa più. Di che cosa parlano
quando non esprimono giudizi taglienti sul collega assente o non elogiano se
stessi? Parlano per aforismi, apotegmi e altre citazioni di piccoli e grandi
autori di cui hanno letto le opere o anche solo annusate. Costruiscono paludate
simmetrie e asimmetrie tra un autore e l’altro, ma la loro specialità consiste
nel tracciare analogie tra il presente e le epoche antecedenti, certi che “la prova di una buona teoria è data dalla
sua capacità di spiegare il passato, perché solo in tal caso possiamo fidarci su
ciò che può dirci sul futuro” [*].
Peccato che omettano di evocare nelle loro concettose
e indubbiamente accattivanti ricostruzioni i maledetti rapporti sociali, segnatamente
quei rapporti che stanno alla base di ogni società, ossia quelli di produzione.
Come se le società storiche vivessero sospese in un iperuranio fatto di rapporti
eminentemente politici, militari, religiosi e tra le élite, come se già Don
Chisciotte – per citare Marx – non avesse scontato l'errore di ritenere la
cavalleria errante egualmente compatibile con tutte le forme economiche della
società.
A proposito di citazioni marxiane, non c’è uno di
questi gentleman che non si prenda la libertà di trattare Marx come una delle
loro stesse maschere. Pensano che Marx facesse lo stesso uso che loro fanno abitualmente
delle citazioni tratte da un autore: smozzicate frasi raccolte dai più
variegati contesti per dimostrare questa o quella tesi che torna comoda in quel
momento ma che potrebbe trovare interpretazione opposta anche solo la sera dopo
per un diverso auditorio.
*
John L. Gaddis, scrive nel suo ultimo libro una cosa
spiritosa che riprende da un libro di Kevin Peraino: Lincoln in the World: The Making of a Statesman and the Dawn of
American Power. S’immagina Lincoln sedersi sul divano del suo ufficio di
Springfield e leggere ad alta voce il giornale, infastidendo il suo socio Billy
Herndon con citazioni rivoluzionarie tratte da un articolo scritto da Marx.
Effettivamente, scrive Gaddis, Lincoln avrebbe potuto aver letto Marx poiché
questi fino al 1861 fu il corrispondente londinese del New York Tribune. “Secondo Marx, scrive sempre Gaddis, il Nord avrebbe facilmente vinto la guerra
civile grazie alle maggiori risorse materiali, ma anche per effetto di un
eventuale rivolta degli schiavi del Sud”.
Vediamo di aggiustare il tiro, ossia le imprecisioni
di Gaddis. Marx per il giornale americano pubblicò solo sette articoli sulla
guerra di secessione (dal settembre 1861 al gennaio 1862). In tale periodo
Lincoln non stava comodo sul divano del suo ufficio di Springfield, per il
semplice motivo che stava seduto sulla più scomoda poltrona della Casa Bianca.
Ho fatto ricerche per verificare la frase attribuita
da Gaddis a Marx, e le uniche frasi che ho scovato sono riprodotte qui sotto alle note [3]
e [4]. Il testo della nota [4] appartiene all’articolo più importante di Marx pubblicato sul Tribune, vale a dire quello del 18
settembre 1861. Non è nei tomi pubblicati in MEOC ma in rete si può trovare la versione inglese, che in italiano fa così:
«Comunque,
proprio nello stesso numero in cui questi giornali [quelli simpatizzanti
per il Sud, quali l’Examiner, l’Economist, ecc.] ci dicono di non poter parteggiare per il
Nord perché la sua non è una guerra abolizionista, ci informa che “l’espediente
disperato” di proclamare l’emancipazione dei negri e di chiamare a raccolta gli
schiavi per un’insurrezione generale “suscita orrore e repulsione al solo
pensarlo” perché “un compromesso” sarebbe “di gran lunga preferibile ad una
vittoria ottenuta a tale prezzo e macchiata da un simile crimine”».
Pertanto la questione dell’”espediente disperato” era
nell’aria e non certo una fisima di Marx. È del resto interessante leggere
integralmente l’articolo di Marx perché ci rende noto di come il Nord abbia
fatto di tutto non per abolire la schiavitù ma per salvare l’Unione, e come il
Sud da parte sua ha iniziato la guerra proclamando a chiare note che il
mantenimento della “peculiare istituzione”, cioè la schiavitù, era l’unico e
precipuo obiettivo della sua ribellione. Nell’articolo si ravvisa anche come il
Congresso avesse proposto un compromesso dopo l’altro, tutti basati sulla
concessione che non si doveva interferire con la schiavitù negli Stati ove essa
esisteva e negli Stati dove vi erano gli allevamenti (sic!) di schiavi. Alcuni
settori della politica nordista proponevano una certa linea geografica entro la
quale doveva essere riconosciuta la schiavitù, mentre il partito che aveva
portato Lincoln alla presidenza si opponeva a tale proposta. In buona sostanza
l’elezione di Lincoln fu una delle ultime gocce che fecero traboccare il vaso.
[1] «The test
of a good theory lies in its ability to explain the past, for only if it does
can we trust what it may tell us about the future» (J.L. Gaddis, On Grand Strategy, p. 10, ora disponibile
anche in Mondadori).
[2] K. Peraino riprende ampiamente la biografia di David
Mc Lellan, Karl Marx, his Life and Thought,
nella quale però non vi sono riferimenti a Lincoln e solo tre riferimenti alla
guerra civile americana non attinenti al nostro discorso.
[3] V’è da dire che la MEOC (Marx Engels Opere
Complete) non ha pubblicato gli articoli di cui qui si tratta, infatti nel XVII
volume (1856-1860) vi sono appunto solo gli articoli pubblicati su The New-York Daily Tribune dal gennaio
al dicembre 1860. Sulla MEW (Marx and Engels Collected Works), vol. XV, l’unica
cosa attinente è questa: “In this struggle the highest form that the self-government
of a people has so far attained is giving battle to the lowest and most
shameful form of human slavery yet seen in the annals of history”.
[4] «However,
in the very same numbers in which these papers tell us that they cannot sympathize
with the North because its war is no Abolitionist war, we are informed that
“the desperate expedient of proclaiming Negro emancipation and summoning the
slaves to a general insurrection,” is a thing “the mere conception of which [...] is repulsive and dreadful,” and that “a
compromise” would be “far preferable to success purchased at such a cost and
stained by such a crime”».
Sempre lo stesso trucco lessicale: Esportare la Democrazia.
RispondiElimina