lunedì 22 luglio 2019

La peculiare istituzione


Quando leggo un saggio di politologi anglosassoni, mi si presenta alla mente un’immagine stereotipata (ma non troppo), dove l’autore, in piedi o seduto, ha un grosso bicchiere di cristallo in mano dove galleggiano, in un liquido ambrato che promette delizia, dei cubetti di ghiaccio. Altri, con lo stesso bicchiere, sorseggiano e chiacchierano accanto a lui. Sono tutti maschi, bianchi, elegantemente casual, istruiti, pragmatici, alcuni alteri e altri affabili (per quanto lo consenta il PhD). Un tempo fumavano tabacco odoroso con la pipa, o lunghi sigari. Ora non usa più. Di che cosa parlano quando non esprimono giudizi taglienti sul collega assente o non elogiano se stessi? Parlano per aforismi, apotegmi e altre citazioni di piccoli e grandi autori di cui hanno letto le opere o anche solo annusate. Costruiscono paludate simmetrie e asimmetrie tra un autore e l’altro, ma la loro specialità consiste nel tracciare analogie tra il presente e le epoche antecedenti, certi che “la prova di una buona teoria è data dalla sua capacità di spiegare il passato, perché solo in tal caso possiamo fidarci su ciò che può dirci sul futuro” [*].

Peccato che omettano di evocare nelle loro concettose e indubbiamente accattivanti ricostruzioni i maledetti rapporti sociali, segnatamente quei rapporti che stanno alla base di ogni società, ossia quelli di produzione. Come se le società storiche vivessero sospese in un iperuranio fatto di rapporti eminentemente politici, militari, religiosi e tra le élite, come se già Don Chisciotte – per citare Marx ­– non avesse scontato l'errore di ritenere la cavalleria errante egualmente compatibile con tutte le forme economiche della società.

A proposito di citazioni marxiane, non c’è uno di questi gentleman che non si prenda la libertà di trattare Marx come una delle loro stesse maschere. Pensano che Marx facesse lo stesso uso che loro fanno abitualmente delle citazioni tratte da un autore: smozzicate frasi raccolte dai più variegati contesti per dimostrare questa o quella tesi che torna comoda in quel momento ma che potrebbe trovare interpretazione opposta anche solo la sera dopo per un diverso auditorio.

*

John L. Gaddis, scrive nel suo ultimo libro una cosa spiritosa che riprende da un libro di Kevin Peraino: Lincoln in the World: The Making of a Statesman and the Dawn of American Power. S’immagina Lincoln sedersi sul divano del suo ufficio di Springfield e leggere ad alta voce il giornale, infastidendo il suo socio Billy Herndon con citazioni rivoluzionarie tratte da un articolo scritto da Marx. Effettivamente, scrive Gaddis, Lincoln avrebbe potuto aver letto Marx poiché questi fino al 1861 fu il corrispondente londinese del New York Tribune. “Secondo Marx, scrive sempre Gaddis, il Nord avrebbe facilmente vinto la guerra civile grazie alle maggiori risorse materiali, ma anche per effetto di un eventuale rivolta degli schiavi del Sud”.

Vediamo di aggiustare il tiro, ossia le imprecisioni di Gaddis. Marx per il giornale americano pubblicò solo sette articoli sulla guerra di secessione (dal settembre 1861 al gennaio 1862). In tale periodo Lincoln non stava comodo sul divano del suo ufficio di Springfield, per il semplice motivo che stava seduto sulla più scomoda poltrona della Casa Bianca.

Ho fatto ricerche per verificare la frase attribuita da Gaddis a Marx, e le uniche frasi che ho scovato sono riprodotte qui sotto alle note [3] e [4]. Il testo della nota [4] appartiene all’articolo più importante di Marx pubblicato sul Tribune, vale a dire quello del 18 settembre 1861. Non è nei tomi pubblicati in MEOC ma in rete si può trovare la versione inglese, che in italiano fa così:

«Comunque, proprio nello stesso numero in cui questi giornali [quelli simpatizzanti per il Sud, quali l’Examiner, l’Economist, ecc.] ci dicono di non poter parteggiare per il Nord perché la sua non è una guerra abolizionista, ci informa che “l’espediente disperato” di proclamare l’emancipazione dei negri e di chiamare a raccolta gli schiavi per un’insurrezione generale “suscita orrore e repulsione al solo pensarlo” perché “un compromesso” sarebbe “di gran lunga preferibile ad una vittoria ottenuta a tale prezzo e macchiata da un simile crimine”».

Pertanto la questione dell’”espediente disperato” era nell’aria e non certo una fisima di Marx. È del resto interessante leggere integralmente l’articolo di Marx perché ci rende noto di come il Nord abbia fatto di tutto non per abolire la schiavitù ma per salvare l’Unione, e come il Sud da parte sua ha iniziato la guerra proclamando a chiare note che il mantenimento della “peculiare istituzione”, cioè la schiavitù, era l’unico e precipuo obiettivo della sua ribellione. Nell’articolo si ravvisa anche come il Congresso avesse proposto un compromesso dopo l’altro, tutti basati sulla concessione che non si doveva interferire con la schiavitù negli Stati ove essa esisteva e negli Stati dove vi erano gli allevamenti (sic!) di schiavi. Alcuni settori della politica nordista proponevano una certa linea geografica entro la quale doveva essere riconosciuta la schiavitù, mentre il partito che aveva portato Lincoln alla presidenza si opponeva a tale proposta. In buona sostanza l’elezione di Lincoln fu una delle ultime gocce che fecero traboccare il vaso.

[1] «The test of a good theory lies in its ability to explain the past, for only if it does can we trust what it may tell us about the future» (J.L. Gaddis, On Grand Strategy, p. 10, ora disponibile anche in Mondadori).

[2] K. Peraino riprende ampiamente la biografia di David Mc Lellan, Karl Marx, his Life and Thought, nella quale però non vi sono riferimenti a Lincoln e solo tre riferimenti alla guerra civile americana non attinenti al nostro discorso.

[3] V’è da dire che la MEOC (Marx Engels Opere Complete) non ha pubblicato gli articoli di cui qui si tratta, infatti nel XVII volume (1856-1860) vi sono appunto solo gli articoli pubblicati su The New-York Daily Tribune dal gennaio al dicembre 1860. Sulla MEW (Marx and Engels Collected Works), vol. XV, l’unica cosa attinente è questa: In this struggle the highest form that the self-government of a people has so far attained is giving battle to the lowest and most shameful form of human slavery yet seen in the annals of history”.

[4] «However, in the very same numbers in which these papers tell us that they cannot sympathize with the North because its war is no Abolitionist war, we are informed that “the desperate expedient of proclaiming Negro emancipation and summoning the slaves to a general insurrection,” is a thing “the mere conception of which [...] is repulsive and dreadful,” and that “a compromise” would be “far preferable to success purchased at such a cost and stained by such a crime”».

1 commento:

  1. Sempre lo stesso trucco lessicale: Esportare la Democrazia.

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