È noto che non fu una questione di sovranità, vuota,
esercitata dall’Inghilterra sugli ampi territori americani il motivo che portò
allo scontro con i propri coloni. Finché si trattò di coloni che trovavano un
vantaggio evidente nella coltivazione della terra, essi accettarono di
sottostare alla madrepatria, ma quando con il normale progresso della società
una parte consistente del capitale fu impiegato nella manifattura, il monopolio
inglese diventò insostenibile.
Ci volle la miopia del ministro delle finanze inglese
George Grenville (1712-1770) per provocare il casus belli che portò alla guerra e alla dichiarazione
d’indipendenza: l’Inghilterra non si accontentò di ottenere i normali vantaggi
che le derivavano dal commercio in esclusiva, ma volle anche il ricavato delle
entrate delle pubbliche imposte nordamericane.
Uno dei principi supremi della Costituzione inglese,
alias l'insieme delle leggi e dei principi attraverso cui il Regno Unito era
governato, prescriveva che nessun inglese poteva essere obbligato a pagare
delle tasse imposte da persone che non fossero i suoi personali rappresentanti.
Che gli abitanti delle colonie fossero inglesi, non lo metteva in dubbio
nessuno, ma essi non avevano alcun rappresentante nel Parlamento di Londra, dunque Londra non aveva alcun titolo per esercitare il diritto di tassazione sui
coloni. Principio discutibile quanto si vuole, ma anche il diritto di sovranità
su una colonia è contraddistinto da una natura assai originale che è pericoloso
indagare.
Ciò che poi ed infine fece vincere la guerra agli indipendentisti
americani fu il tempestivo arrivo della flotta francese al largo di Yorktown,
fatto che costrinse i britannici alla capitolazione. Dopodiché gli yankee
abbandonarono il loro alleato per negoziare un accordo con gli emissari del
nemico, estendendo i confini a ovest del fiume Mississipi [1].
I francesi avevano sostenuto la rivoluzione americana
dissanguandosi finanziariamente, tanto che Friedrich von Genz, segretario generale
del Congresso di Vienna e alter ego di Metternich, ebbe a scrivere che “le
circostanze in cui si trovò la Francia allo scoppio della rivoluzione erano
state causate in buona parte, se non completamente, dal ruolo che essa aveva
giocato nella rivoluzione americana” [2].
Nel 1811, John Quincy Adams scrisse a sua madre che
gli Stati Uniti dovevano diventare una nazione, coincidente col continente
nordamericano, “destined by God and
nature [!!] to be the most populous
and most powerful people ever combined under one social compact” [3].
Come riuscirono i discendenti dei leggendari Pilgrim Fathers o Founding Fathers a diventare da colonia a impero mondiale? I due presupposti della prosperità americana furono dapprima il furto delle terre e
delle risorse dei nativi, e il lavoro dei nuovi immigrati, anzitutto quello gratuito
degli africani acquistati come schiavi. In tal modo costituirono quello che si
chiama “capitale originario”.
Il presidente Hayes, nel suo discorso annuale del
1877 ebbe a riconoscere:
Gli Indiani
erano gli originali occupanti della terra ora in nostro possesso. Sono stati da
noi cacciati di luogo in luogo. Il prezzo d’acquisto pagato in qualche caso
per ciò che essi reputavano la loro proprietà li ha lasciati comunque poveri. Molte
volte, quando s’errano sistemati sui terreni loro assegnati di mutuo accordo e
avevano cominciato a sostenersi con loro lavoro, ne furono brutalmente espulsi
e di nuovo gettati allo sbaraglio. Molte, se non la maggior parte, delle nostre
guerre con gli Indiani hanno avuto origine dalla rottura dei patti e da atti
ingiusti di cui siamo responsabili.
Morrinson e Commager, forse con involontario sarcasmo, aggiungono che:
Il problema indiano
sta del resto rapidamente scomparendo con l’approssimarsi dell’estinzione degli
indiani purisangue. I fieri selvaggi, che una volta dominavano incontrastati il
continente americano, sono ormai sistemati entro circa 200 riserve governative,
dove vivono alla meglio di sussidi governativi, esclusi dalla libera vita dei
vecchi tempi, avendo perduta la capacità di provvedere a sé stessi, in piena
disintegrazione economica e fisica, pietosi e tragici rappresentanti, ormai,
della razza che aiutò l’uomo bianco a adattarsi all’ambiente americano [4].
Con il Dawes
Act del 1887 il singolo indiano poteva diventare proprietario della terra
che lavorava, ma solo dopo 25 anni poteva avere diritto di disporne e di avere
la cittadinanza. Ridotti ad infima minoranza, solo nel 1924 il Congresso
“largiva la cittadinanza a tutti gli Indiani residenti”.
Non solo furti di terre, per esempio la Louisiana fu
acquistata della Francia a un prezzo stracciato, in tal modo raddoppiando
nuovamente l’estensione dell’Unione (la Louisiana era allora territorialmente
ben più estesa dell’attuale omonimo Stato). Sarebbe davvero interessante
conoscere come l’Arizona, lo Utah, l’Oregon, lo Stato di Washington e l’Idaho
diventarono altrettante stelline nella bandiera americana. Nel 1821 gli
spagnoli avevano abbandonato la Florida in cambio di una presa in carico
americana delle rivendicazioni (americane!) locali. L’accordo comportava
l’esclusione del Texas dagli Stati Uniti. Per quanto riguarda la California [5],
cioè l’Alta California, divenne statunitense solo nel 1850, dopo che nel 1847
gli Usa avevano invaso il Messico, al quale sottrassero anche il Texas. Allora
tale strategia espansionistica si chiamava “Manifest
destiny” (poi si chiamerà, di volta in volta, in altro modo).
Il resto è abbastanza noto: la produzione
manifatturiera statunitense, nel 1914, superava quella della Gran Bretagna e
della Germania messe insieme. La produzione di acciaio era quasi doppia
rispetto a quella tedesca, la quale a sua volta era il doppio di quella della
Gran Bretagna, della Francia e della Russia; possedevano una bilancia
commerciale in forte attivo che gli assicurava un terzo delle riserve d’oro
mondiali. In quello stesso anno nel quale l’Europa si prende cura di distruggere la
propria civiltà, si inaugurava il canale di Panama che consente il transito tra
i due grandi oceani. Gli Stati Uniti sebbene non facessero ancora parte del
sistema delle grandi potenze, erano già la più grande potenza economica mondiale e rappresentavano il più grande trionfo del capitalismo.
Alla fine del conflitto gli Stati Uniti si
ritrovarono, come disse Edward M. House, a “rifare la mappa del mondo, secondo
il nostro desiderio”. Il resto della favola è noto presso il grande pubblico
più per opera di Hollywood che per buon foraggio degli storici.
Arriviamo così alla guerra fredda, all’aspro
confronto con l’Unione Sovietica, in cui la sfida americana per la conquista
dello spazio extraterrestre non fu meno importante di quella sugli armamenti. E
che si trattasse anzitutto di una sfida per la supremazia mondiale si deduce
chiaramente dalle parole pronunciate dal presidente John F. Kennedy, quando, preoccupato dai costi del programma lunare che gli
avrebbero fatto perdere popolarità, in una registrazione audio del 21 novembre
1962 ebbe a dire:
“Qui
parliamo di costi folli che prendono quasi tutto il budget, riducendo quasi
tutti gli altri programmi nazionali alla fame. L’Unione Sovietica ha fatto
della corsa allo spazio una sfida, ed è solo per questo che lo facciamo. Altrimenti
non permetterei una simile spesa. A me lo spazio non interessa”. In un’altra conversazione privata
registrata alla Casa Bianca il 18 settembre 1963 disse: “Credete che portare l’uomo sulla Luna sia una buona idea? A me sembra
un’esagerazione, si potrebbe studiare lo spazio attraverso la tecnologia.
Mandare un uomo lassù è solo un’acrobazia e non vale i miliardi che spendiamo”.
Agli Usa bastava in realtà stampare dollari per
realizzare un programma così ambizioso e non privo di grandi rischi come quello
di portare dei bipedi sulla Luna. Riuscirono in pochi anni in un’impresa che ha
quasi dell’incredibile, tanto che ancor oggi vi sono non pochi simpatici alieni
che non credono sia stata realizzata (gli allunaggi sono stati ben sei !!).
[1] John Lewis Gaddis, On grand strategy, Penguin Books, 2019, p. 166.
[2] L’origine e
i principi della rivoluzione americana a confronto con l’origine e i principi
della rivoluzione francese, Sugarco, 2011, p. 49.
[3] Gaddis, ibidem, p. 178.
[4] Morrinson e Commager, St. degli Stati Uniti d’A., La Nuova Italia, 1961, II, pp. 113 e
117.
[5] Il nome California fu tratto dalle Sergas de Espladián, un romanzo del XVI
secolo di Garcia Rodríguez de Montalvo, in cui si parla della regina Calafia
che governava un’isola paradisiaca chiamata California (Sergas significa “gesta”, ed Espladián
era il figlio di Amadis de Gaula, il grande eroe dei romanzi cavallereschi). La
scelta del nome viene comunemente attribuita a Cortés, ma non appare in nessuno
dei suoi documenti. Il primo a farne menzione fu infatti Gomara, seguito da
Bernal Diaz. Va precisato che non si riferiva a tutto il territorio, ma solo a
una baia.
Secondo Wikipedia i primi europei ad esplorare la
costa californiana furono Juan Rodriguez Cabrillo nel 1542 e in seguito da
Francis Drake nel 1579. Tuttavia nel 1539 Francisco de Ulloa aveva esplorato la
costa del golfo di California (mare di Cortés) fino a trovarne la fine, alla
foce del fiume Colorado, e dall’insenatura di San Andrés, seguendo l’altra
costa giunse in California.
Prendo nota. Aggiungo, perché di piacevole lettura:
RispondiEliminaAndré Maurois, Storia degli Stati Uniti, Mondadori
E la straordinaria autobiografia di Benjamin Franklin, specialmente il primo dei due volumi.
prendo nota a mia volta, grazie ciao
EliminaL'Apartheid era legale, il Colonianilismo era legale, la Schiavitù era legale. La legalità è una questione di Potere, non di Giustizia
RispondiEliminale leggi sono una questione di rapporti di forza tra le classi sociali, cosa notissima
EliminaA proposito di..
RispondiEliminaA mio avviso altro interessante testo è quello di Raimondo Luraghi : "Storia della guerra civile americana"
Interessanti le considerazioni del deputato Lincoln sul problema della segregazione razziale e poi più tardi sulle terre dell'ovest..(sic!)
caino
https://diciottobrumaio.blogspot.com/2016/06/sulla-schiavitu-degli-afroamericani-1.html
Eliminahttps://diciottobrumaio.blogspot.com/2016/06/il-mito-dei-founding-fathers.html