Segue
qui un commento, assai lungo ma per quanto possibile sintetico, a un articolo, poi pubblicato come saggio insieme ad altri scritti, di Robert Kurz.
L’articolo ha per titolo: L'onore perduto del lavoro. Il socialismo dei produttori come impossibilità logica. Il leit-motiv
della sua posizione è già enunciato in apertura:
Nell'orizzonte
dell'ontologia del lavoro non è possibile alcun socialismo, o, detto
altrimenti, la forma-merce della riproduzione sociale non può venir superata
che insieme al "lavoro".
Questa
concezione negativa del lavoro tout court, addirittura nella sua “ontologia” – e dunque del lavoro in sé e per sé – , ha
trovato seguito presso un certo “pubblico”. Kurz fa largo uso di due concetti
per definire il lavoro e il suo opposto, cioè il “lavoro astratto” e il “non
lavoro”. Per lavoro lavoro astratto egli intende il lavoro nella sua forma di
valore di scambio e per non lavoro l’ozio produttivo.
È
dunque dall’analisi di questi due concetti che dobbiamo partire. Kurz colloca in
tal modo il lavoro astratto nello sviluppo storico:
[…] l'emancipazione
dell'umanità doveva passare attraverso il lavoro
astratto e […] la separazione del
lavoro dalla totalità del processo vitale è stata necessaria per poter
ricostruire la sua unità sul livello più alto della ricchezza di bisogni.
Infatti, per quanto possa a prima vista sembrare paradossale, solo la
separazione del lavoro da quell'unità originaria del processo vitale nella sua
totalità, reputata buona e desiderabile, ha creato un limitato ozio anche per
la massa dei produttori immediati: solo il lavoro
astratto ha prodotto il tempo libero nel senso di un tempo effettivamente
libero, cioè di un tempo coscientemente disponibile per le masse.
Kurz
è ben cosciente: 1) che dalla totalità del processo vitale, a un dato stadio
dello sviluppo sociale, è avvenuta la separazione dal lavoro, il quale,
evidentemente, fino ad allora di tale totalità vitale ne faceva parte; 2) che
vi sono epoche storiche e modi di produzione in cui i prodotti del lavoro umano
non sono tutti delle merci.
Però
non basta dire che le merci, al pari
dei prodotti di epoche economiche precedenti a quella capitalistica, sono
semplicemente risultati del lavoro tout court. Il lavoro rappresentato nelle
merci ha un duplice carattere: il
carattere di lavoro concreto e di lavoro astratto.
È
una distinzione molto importante, anzi Marx riteneva che fosse la “novità
fondamentale” della sua teoria:
“[…] a tutti gli economisti senza
eccezione è sfuggita la cosa semplice che, essendo la merce un che di duplice,
di valore d’uso e di valore di scambio, anche il lavoro rappresentato nelle
merci deve avere un carattere duplice” (lettera ad Engels dell'8 gennaio
1868).
Per
Marx la forma concreta del lavoro è
intesa come l’insieme delle qualità che gli conferiscono il carattere di
utilità. Il lavoro concreto non produce
valori di scambio, bensì oggetti destinati all’uso. Il lavoro concreto del falegname o del calzolaio, per esempio, quale
“attività produttiva conforme allo scopo”, cioè diretta all’appropriazione di
ciò che la natura fornisce, è una
necessità “naturale”, valida per tutte le formazioni economico sociali e per
tutte le epoche storiche.
Per
lavoro astratto, universalmente
umano, Marx intende quell’alcunché di comune – il dispendio di forza lavoro
umana – contenuto nei differenti lavori che producono le varie merci, che crea valore di scambio ed opera nel processo di valorizzazione. Esso fa
la sua comparsa soltanto in una formazione sociale storicamente determinata,
quella capitalistica.
Per
dire ciò che in Marx è chiarissimo, basta
riassumerlo.
In
Kurz invece la distinzione tra lavoro astratto e lavoro concreto non è
richiamata esplicitamente, ed egli punta subito a dire, come del resto s’è
visto, al concetto di superamento del lavoro astratto, cioè del lavoro
salariato, come necessario superamento del lavoro tout court:
Questo superamento
integrale del lavoro astratto è possibile, in primo luogo, solo come superamento del lavoro tout court, il quale non deve
essere confuso con l'attività riproduttiva umana o con il ricambio organico con
la natura.
Viene
da chiedersi, a proposito del superamento del lavoro tout court, chi mai
regolerà il ricambio organico con la natura, e chi mai, per dirla in una
battuta, stirerà le camicie ai filosofi, e come verrà dunque a definirsi tale
attività nel linguaggio dei medesimi.
Ad
ogni modo, seguendo Kurz, che cosa significa “superare il lavoro tout court”?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo considerare anzitutto che cos’è il lavoro tout court, cioè nella sua
“ontologia” e non solo nella sua
determinazione storica di attività “astratta” peculiare nel capitalismo (*).
*
Scrive
Robert Kurz:
Il lavoro come categoria
reale include già il "non-lavoro", ossia sfere che si collocano al di
là del lavoro, e ambiti sociali separati dal processo lavorativo.
Bella
scoperta quella che il lavoro include, per opposizione, il non lavoro. Così
come l’ozio include in opposizione il non ozio, l’essere include il non essere,
e via elencando all’infinito.
Le
sfere che si collocano oltre il lavoro sono le attività del tempo libero, quali
la politica, la cultura, l’arte, ecc.. Questa distinzione in sfere separate
dell’attività umana, tra lavoro e non lavoro, implica un certo grado di
sviluppo sociale, dunque una sviluppata divisione
sociale del lavoro. E tale concetto, rinvia ad altre determinazioni essenziali,
queste assenti in Kurz, ossia al concetto di produzione in generale, di modo di
produzione, di rapporti di produzione, di contraddizione tra rapporti di
produzione e forze produttive, di formazione economico sociale, ecc..
Sintomatico
di questo modo di procedere di Kurz è che egli individua a più riprese nella
sfera dello “scambio” la determinazione essenziale della crisi definitiva del
modo di produzione capitalistico. Di qui i temi quali “crisi”, “ecologia”,
“socialismo”, “lavoro astratto”, “ozio produttivo”, eccetera, sono gettati nel
piatto della sua critica in cui è difficile seguire un filo logico, men che
meno un’articolazione di tipo scientifico, e sembra di avere a che fare
anzitutto con un pamphlet polemico e di pura suggestione, punteggiato di
puntuali critiche ai modelli sociali “socialisti” e a certe interpretazioni
unilaterali del marxismo d’antan.
Ad
ogni buon conto, pur nella difficoltà che tale confusione e mancata definizione
comportano all’analisi, vedo di prendere in considerazione le questioni così come
sono sollevate da Kurz.
Il
“non lavoro”, sia esso una condizione appartenente a pochi, a molti o a tutti, è
reso possibile solo se sono soddisfatti i bisogni sociali generali. Si può
ridurre il lavoro al minimo indispensabile grazie allo sviluppo tecnologico e
tecnico, sottrarlo allo sfruttamento capitalistico e dunque modificarne le
forme, superare il lavoro soprattutto
nella sua natura di scambio, ma non sarà mai possibile eliminare l’attività umana – comunque denominata
– quale ricambio organico con la natura.
Sempre
dall’articolo di Kurz:
Anche in Marx la
questione non appare ancora del tutto decisa, ma rimane nell'ambiguità. Da un
lato Marx argomenta (anche e soprattutto nei lavori giovanili) la necessità di
un superamento del "lavoro", ma dall'altro esplicita in molti luoghi
della sua opera un'ontologia di questo stesso "lavoro". Potrebbe
dunque trattarsi solo del superamento
delle forme storico-sociali sempre diverse che il "lavoro" ha
assunto e non della sua esistenza
che apparirebbe presupposta come eterna.
Vediamo
dunque cosa intendeva quell’ambiguo di Marx quale espressione “eterna” del
lavoro.
Marx
esprime nel quinto capitolo del I libro de Il
Capitale, così come nel frammento sulle macchine nei Grundrisse, la tesi che può essere riassunta come segue: tanto che
si considerino i collettivi umani nel luogo remoto del loro distacco dai
paleantropi, ossia che si proietti lo sguardo al loro punto virtuale di svolta
radicale, laddove l’uomo sociale emerge dalla lunga tenebra della società
classista, ciò che vi è di essenziale
e specifico nell’attività non cambia.
“Il nostro presupposto è
il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni
che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti
con la costruzione delle sue cellette di cera. Ciò che fin da principio distingue
il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la
celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo
lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea
del lavoratore, che quindi era già presente idealmente.”
Ciò
vuol dire che sin dalle origini il processo
lavorativo umano si qualifica ed ha inizio
con la produzione di un progetto e di uno scopo. È appunto tale scopo che “determina come legge” il modo di operare del lavoratore, tant’è vero, aggiunge Marx, che
ad esso quest’ultimo “deve subordinare la sua volontà” (*).
Che
ciò avvenga in forma coatta come nel modo di produzione capitalistico o nella
forma evoluta in cui il lavoratore “gode come gioco della propria forza fisica
e intellettuale”, ciò non modifica la
sostanza del processo lavorativo umano, in cui primo e fondamentale momento
semplice resta comunque l’attività, mediata da strumenti e segni, conforme ad
uno scopo .
In
altri termini ancora: è grazie al lavoro che l’uomo è diventato ciò
che è, ossia umano. Per quanto poi questo lavoro, nelle diverse forme storiche
della produzione, abbia assunto le caratteristiche di sfruttamento sull’uomo che
ben conosciamo. E dunque da superare sono le forme di sfruttamento che l’hanno
contraddistinto storicamente, e non già il lavoro umano in quanto tale, ossia quell’attività
che ci consente di elevarci al di sopra degli altri animali, di dominare la
natura, alla quale apparteniamo, nella capacità di conoscere le sue leggi e di
impiegarle nel modo più appropriato.
L’attività
umana – e dunque il lavoro –, mano a mano che nel divenire della materia
sociale si libera dai residui di animalità, si manifesta nella sua forma
essenziale: nella produzione di conoscenze, di nuovi linguaggi, per rendere la
comunicazione tra li uomini e la natura, tra gli uomini e le macchine, tra le
stesse macchine e all’interno della comunità sociale sempre più veloce e
unilaterale.
Nel modo di produzione capitalistico,
prima di esso e oltre a questo, è la produzione di pratiche e di strumenti che
consentono di sfruttare tutte le potenzialità del cervello sociale e di fare di
quest’ultimo la prima e più importante materia prima ad assumere una funzione
decisiva nella produzione e riproduzione della vita sociale.
Il
lavoro è il produttore di tutti i valori, solo esso dà ai prodotti che si
trovano in natura un valore in senso
economico. Il valore stesso non è altro che l'espressione del lavoro umano
socialmente necessario oggettivato in una cosa. Il lavoro in sé non può dunque avere alcun valore, se non nella sua
forma astratta e storicamente determinata, limitata:
“Gli uomini equiparano l'un con l'altro
i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come
valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo
fanno” (Il Capitale, cap. 1°).
Che
il lavoro in sé non possa avere alcun valore è di grande importanza per il
socialismo che vuole liberare la forza-lavoro umana dalla sua posizione di merce, di valore di scambio.
Sarebbe
dunque questa concezione del lavoro in Marx “universalista, sovrastorica,
generale e astratta”, come afferma Kurz in una sua intervista? A me non pare. Dove
dunque Robert Kurz rintracci tale presunta “ambiguità” in Marx è mistero; dove
risultino “equivoche e contraddittorie in sé” le sue affermazioni, non viene
specificato, non almeno in questo articolo.
*
Per
quanto riguarda “i lavori giovanili”, richiamati da Kurz, si deve tener conto
che essi rappresentano la preistoria della teoria economica di Marx. Infatti
l’elaborazione dei concetti fondamentali dell’economia politica ha il suo
periodo culminante negli anni 1850-1863. È in questo periodo che Marx sviluppa
in modo organico la sua teoria del valore e del plusvalore, nonché la sua
teoria del profitto medio, prezzo di produzione, rendita fondiaria, ecc..
Ad
ogni buon conto da giovane Marx ebbe a scrivere negli appunti che prenderanno
poi il titolo postumo di Ideologia
tedesca, quanto segue:
“[…]
in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo
dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa
attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone […].”
Il
punto vero della questione non è dunque il lavoro tout court, ma il tipo di
attività e il valore sociale di tale attività nell’ambito di determinati
rapporti sociali di produzione. Scrive Marx al riguardo:
“Questo fissarsi
dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un
potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro
controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri
calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo
storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse
collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come
Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come
comunità illusoria […].”
E
dunque, momento fondante dell’interesse particolare, in contrapposizione a
quello collettivo, è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Ovvio che a nulla servirebbe modificare i rapporti
giuridici di proprietà dei mezzi di produzione se rimanesse inalterata
l’organizzazione capitalistica del lavoro, se non fosse raggiunto dunque un
certo grado di sviluppo tecnologico e produttivo atto a creare le condizioni
oggettive affinché il lavoro in forma immediata cessi di essere la grande fonte
della ricchezza e il tempo di lavoro cessi di essere la sua misura. In breve, a
nulla servirebbe modificare i rapporti giuridici di proprietà dei mezzi di
produzione se non quale condizione per il superamento
della forma merce, per il superamento del processo del lavoro dalla sua sottomissione
reale alla produzione di plusvalore. E tale superamento è già contenuto
come forma inconsapevole nella stessa dinamica dello sviluppo e del processo di
accumulazione del capitale.
Kurz ha perfettamente
ragione nello scrivere:
E' evidente che la
separazione del "lavoro" dal resto del processo vitale non può essere
cancellata tornando indietro, come vorrebbe, in fin dei conti, la critica
moderna delle forze produttive, ispirata alla filosofia della vita. L'unità di
lavoro produttivo, prassi vitale e cultura, così come trovava espressione ad
esempio nei canti di lavoro dei navigatori del Volga, può difficilmente essere
raccomandata per risolvere le contraddizioni generate dalla socializzazione
astratta nella sua attuale configurazione. Qualsiasi "ricostruzione"
pseudoconcreta e pseudoimmediata di questa unità finisce inevitabilmente
nell'idealizzazione reazionaria di una povertà di bisogni e di uno stato di
sofferenza che il livello di civilizzazione oggi raggiunto rende di fatto
inimmaginabile.
Il disprezzo per il
lavoro da parte delle classi dominanti precapitaliste ha perciò rappresentato
anche un enorme progresso, poiché solo l'esenzione di una minoranza dal lavoro
totale nel processo vitale onnicomprensivo poteva creare una distanza dalla
natura e preparare un grado più alto del ricambio organico (chi è implicato in
questa connessione non ne è naturalmente cosciente). L'ozio dei vecchi ceti
dominanti (ancora sottomessi nella loro prassi vitale a feticci naturali quali
la parentela di sangue) era, tutto sommato, molto più "produttivo" di
tutto l'onesto lavoro produttivo della storia universale. La scienza è nata
nell'antichità, non dal lavoro, bensì dall'ozio, cioè grazie alla distanza
dalla cruda unità del processo vitale.
Questa
tesi di Kurz è corretta e ripete ciò
che aveva già scritto Engels nell’Anti-Dühring
(II sezione, cap. 4°):
Solo la schiavitù rese
possibile che la divisione del lavoro tra agricoltura e industria raggiungesse
un livello considerevole e ciò rese possibile il fiore del mondo antico: la
civiltà ellenica. Senza la schiavitù non sarebbero esistiti né lo Stato, né
l'arte, né la scienza della Grecia: senza la schiavitù non ci sarebbe stato
l'Impero romano. Ma senza le basi della civiltà greca e dell'Impero romano non
ci sarebbe l'Europa moderna. Non dovremmo mai dimenticare che tutto il nostro
sviluppo economico, politico e intellettuale ha come presupposto uno stato di
cose in cui la schiavitù era tanto necessaria quanto generalmente riconosciuta.
In questo senso abbiamo il diritto di dire che senza l'antica schiavitù non ci
sarebbe il moderno socialismo.
Marx
aveva già chiarito nei Grundrisse:
La ricchezza reale si
manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme
sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure
nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e
la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il
lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto
l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e
regolatore.
Kurz:
L'unità del processo
vitale dunque non può venir ricostruita all'indietro attraverso la dissoluzione
del lavoro astratto, ma al contrario è quest'ultimo a dover essere concepito
come una scala verso uno stadio più alto della prassi vitale. Di questa scala
non abbiamo, oggi, più bisogno. Non si tratta dunque di annullare la capacità
ormai acquisita di distanziarsi dalla natura, ma di liberarla dalle misere
stampelle del lavoro astratto. Questo superamento non può avvenire sulla base
del lavoro produttivo, ma solo sulla base dell'"ozio produttivo".
Solo da questo punto di vista diventa comprensibile il discorso marxiano sullo
sviluppo delle forze produttive come presupposto di una rivoluzione socialista che
il capitalismo crea inconsapevolmente.
Il
lavoro dunque a un determinato stadio dello sviluppo non si definisce più quale
“lavoro produttivo” in senso capitalistico, bensì viene a configurarsi come
“ozio produttivo”, dice Kurz, e con ciò sembra superato il lavoro non solo
nella sua forma capitalistica, ma il
lavoro in quanto tale, il lavoro nella sua ontologia. Basta chiamarlo “ozio produttivo” e il gioco è fatto.
La prospettiva dell'ozio
produttivo come riferimento positivo alla ricchezza di bisogni ormai acquisita,
la rottura dell'involucro del lavoro astratto e quindi la riunificazione delle
sfere del processo vitale sociale che l'ordine borghese ha separato non si
danno all'interno del lavoro, ma solo al di là di esso. […]
Il "regno della libertà" comincia già all'interno del ricambio
organico con la natura, nella misura in cui questo non può più essere definito
come lavoro.
E
dunque se non vogliamo chiamarlo lavoro, per distinguerlo dal lavoro così come
inteso fin qui, ovvero come attività separata, fatica e sfruttamento, come
vogliamo chiamarla l’attività di ricambio con la natura? Di “ozio produttivo”
si tratta, dice Kurz, e difatti soggiunge:
Questo ricambio organico
può basarsi oggi su sempre meno lavoro produttivo umano, il quale, in quanto
tale, e dunque in quanto lavoro astratto, sfera separata del mero dispendio di
forza-lavoro, si va rivelando del tutto obsoleto.
“Sempre meno” non significa che il lavoro in quanto tale scompaia, comunque si voglia definire il “lavoro produttivo umano”; e non è assolutamente
vero che esso si configuri sempre quale lavoro astratto, ossia quale valore di
scambio incarnato nella forza-lavoro dell’operaio. Che cosa scrive ancora Marx
nei Grundrisse a tale riguardo?
L’operaio non è più
quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra
l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli
trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura
inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di
produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è
né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora,
ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della
natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale —
in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il
grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del
tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come
una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel
frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.
Non appena il lavoro in
forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo
di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di
scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della
massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza
generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione
dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione
basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale
immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
[Subentra] il libero
sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro
necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro
necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo
sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto
libero e ai mezzi creati per tutti loro (**).
Non
dunque il “lavoro come tale raggiunge i suoi limiti storici”, come invece sostiene
Kurz, ma il lavoro nella sua determinazione di merce, il tempo di lavoro
immediato quale misura della ricchezza, il lavoro necessario per creare
pluslavoro, ecc.. Si tratta di pensare il superamento del modo di produzione
capitalistico come passaggio ad un nuovo stadio dell’evoluzione umana: al
controllo cosciente delle forze della natura e della materia sociale; al
trasferimento alle macchine della materialità del lavoro; all’assunzione
collettiva del lavoro creativo, di progettazione di finalità e di direzione del
processo di lavoro automatico autoregolato.
Si
tratta dunque di liberare l’umanità dal lavoro inteso nelle sue forme storiche quali
le abbiamo fin ora conosciute, non dunque di liquidare il lavoro in quanto tale, ossia quale attività
connessa con i ricambio organico e quale attività di libero sviluppo
dell’individuo, come del resto anche Kurz contraddittoriamente ammette.
Scrive
al riguardo:
Rilevante non è più il
dispendio individuale di lavoro e la sua massa complessiva, ma la
pianificazione e direzione del nesso funzionale materiale della riproduzione,
divenuta immediatamente sociale. Non ha rilevanza alcuna che il singolo lavori
due o cinque o otto ore, importante è solo che le componenti messe in moto
abbiano un senso in rapporto al contenuto e alle conseguenze materiali. Nessuno
è più portatore di "forza-lavoro", la quale, o la cui prestazione
(oggettivata in un modo misurabile individualmente), possa entrare in uno
scambio, ma ognuno diventa parte di un aggregato di riproduzione a livello
della totalità sociale il cui movimento materiale deve venir diretto e
controllato collettivamente. Su questa base, pianificazione significa qualcosa
di completamente diverso dallo scambio pianificato di "lavoro
onesto", ed è solo a questo livello di sviluppo delle forze produttive che
lo si può riconoscere come un non-senso logico.
Dichiara
irrilevante “che il singolo lavori due o cinque o otto ore”, perché ipso
facto non sarebbe più portatore di
forza-lavoro, e importante sarebbe solo che “le componenti messe in moto” (cioè
le forze produttive) “abbiano un senso in rapporto” con il risultato materiale
della produzione. Su questo ci sarebbe molto da discutere ma non voglio farla
ancora più lunga.
In
definitiva che cosa ha aggiunto dunque di nuovo Kurz nelle sue parole rispetto
a quanto aveva teorizzato Marx? Kurz chiama il lavoro sottratto alla forma di
valore di scambio “ozio produttivo”; però condanna il lavoro inteso “ontologicamente”,
cioè tout court, cosa che Marx non si sogna di fare. Rivolge a Marx l’accusa di
avere una concezione del lavoro “universalista, sovrastorica, generale e
astratta”, ma a Marx non possono essere imputate le responsabilità per le
concezioni unilaterali e le interpretazioni parziali del lavoro tipiche dell’operaismo
e del marxismo novecenteschi, né le incongruenze dei suoi critici.
La
questione del lavoro e del superamento delle sue forme di sfruttamento e di
separazione è un problema aperto che non può essere affrontato fuori del
contesto materiale e delle contraddizioni di classe, e chi è realmente
intenzionato a “rovesciare il cielo e la terra” non può scansarlo né liquidarlo
semplicemente cambiandogli nome.
(*)
Forse vale la pena ricordare che nel modo di produzione capitalistico lo scopo
essenziale della produzione, dunque dell’attività lavorativa, non è la produzione di “beni” bensì la produzione del plusvalore per il plusvalore.
(**)
Marx così prosegue:
Il capitale è esso stesso
la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di
lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica
misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro
nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del
tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura
crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario.
Grazie. Capisco sempre meglio cosa significhi camminare sulle spalle dei giganti.
RispondiEliminaRiguardo a Kurz: credo che sulle generali non siate molto distanti. Va detto, inoltre, che il saggio che hai analizzato è stato pubblicato nel 1994, a pochi anni dalla caduta del muro di Berlino.
Comunque: gran ‘lavoro’, il tuo. :-)
ANCHE GRAZIE AI TUOI SUGGERIMENTI
EliminaNon dunque il “lavoro come tale raggiunge i suoi limiti storici”, come invece sostiene Kurz, ma il lavoro nella sua determinazione di merce, il tempo di lavoro immediato quale misura della ricchezza, il lavoro necessario per creare pluslavoro, ecc." “(Forse si intendeva plusvalore.)
RispondiEliminaInfiniti giri di parole sia quelle di Marx che quelle di Kurz, per dire grosso modo la stessa cosa. Il lavoro necessario per stirare camicie ai filosofi o semplicemente le basse manovalanze necessarie per far sì che il cittadino medio quando va in un bagno pubblico abbia tutto l'occorrente per pulirsi, è una parte residua e imprescindibile del lavoro. Non è certo sui peones che coltivano mais e grano e nemmeno sui poveri operai della Cina o Corea che si basa l'immane accumulazione capitalistica degli ultimi anni, la quale va avanti imperterrita, crisi dopo crisi, alla faccia della disoccupazione crescente.
E' proprio il concetto di lavoro come merce che è in crisi, oggigiorno. E' una merce della quale i capitalisti hanno sempre meno bisogno per arricchirsi. Il capitalismo di oggi, non è più l'idra a sette teste che schiaccia con le sue zampe torme infinte di operai sfruttati. E' più come un super robot da cartone animato giapponese che si libra nell'atmosfera lanciando fiamme verso altri super robot, totalmente incuranti della folla di spettatori impotenti che li osservano dal basso.
ammiro i poeti
EliminaInfatti...
RispondiEliminaL'altro giorno ,infatti,osservavo mentre degustavo un ottimo caffe'servitomi da una robottina niente male,Atlas Ufo Robot,fare un eccellente lavoro di posizionatura cubetti ,laddove era saltata una fogna.
Goldrake intanto svuotava cassonetti della spazzura imperterrito.
caino
dall' ortodossia dogmatica alle risibili critiche riformatrici, il corpo della teoria marxiana viene sottoposto a continue dissezioni da parte dell' intellettualità marxista, laddove il corpo non può proprio funzionare facendo a meno della sua interezza
RispondiEliminasi fa l'autopsia, dicevo, ma la viva dialettica, ritornando continuamente sui suoi passi, non va nè avanti nè indietro ma o sale ad un livello di contraddizione più elevato oppure fallisce
in fondo questo di Kurz è l'ennesimo tentativo "di superare" la teoria del valore, amputandone o appropriandosi però di qualche premessa e di qualche sviluppo già interno ad essa
ma che ci vogliamo fare, sono solo prodotti intellettuali ovvero intellettuali prodotti !
sostanzialmente d'accordo
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