Ripropongo
un post del 6 novembre scorso che forse può chiarire quello del 20 giugno dal
titolo Il sonno dell’immaginazione crea
mostri
* * *
Il primo presupposto della società umana, dunque di
ogni storia, è che gli uomini producano le condizioni della propria esistenza:
cibo, vestiario, abitazioni, ecc.; il modo di produrre queste cose, da un certo
stadio in poi, dà luogo alla divisione sociale del lavoro che condiziona i
rapporti sociali fra gli uomini e diventa reale solo nel momento in cui
interviene una divisione tra lavoro manuale e quello intellettuale. Per
ottenere questo tipo di separazione delle funzioni lavorative il presupposto
essenziale è la proprietà privata (*).
Leit-motiv dell’ideologia borghese a difesa dello status quo
contro qualsiasi possibilità di cambiamento radicale è che, date tali premesse,
il destino dell’umanità sarebbe segnato dalla necessità di avere chi comanda e
chi esegue, chi è proprietario e chi è servo. Secondo questa ciurma di
propagandisti, Marx sarebbe stato solo un profeta illuso, egli avrebbe nutrito
un’eccessiva fiducia sul fatto che abolita la proprietà privata sarebbe cessato
lo sfruttamento e quant’altro. Del resto, rilevano, la storia recente ha
dimostrato che anche laddove non è esistita formalmente
la proprietà privata continuava a sussistere la divisione sociale del
lavoro, la separazione tra quello manuale e il lavoro intellettuale, ossia la
gerarchia sociale.
Naturalmente Marx era ben consapevole di tutte queste
fumisterie dell’ideologia fatte proprie dagli scolaretti di ogni epoca, e mai
avrebbe pensato che per “instaurare” il comunismo sarebbe bastato abolire la
proprietà privata, in tal caso non servirebbe alcuna rivoluzione ma un decreto
firmato da Vendola (**). Infatti ebbe a precisare fin dagli scritti giovanili:
“[…] in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo
dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa
attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone”.
Pertanto, nel prefigurare una società comunista nella
quale ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i propri
bisogni, poneva come premessa che ciò potrà avvenire solo “dopo che è
scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro,
e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale; dopo che il
lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della
vita …” (***).
Questo a sua volta presuppone “un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo
sviluppo; e d’altra parte questo
sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza
empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano
locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche
perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col
bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per
forza tutta la vecchia merda, e
poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono
aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il
fenomeno della massa ‘priva di proprietà’ contemporaneamente in tutti i popoli
(concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli
altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella
storia universale, individui empiricamente universali (****).
Nella Russia stalinista prevalse la concezione del
“socialismo in un paese solo”, da realizzare in una realtà economica a dir poco
arretrata, in un paese sfiancato da anni di belligeranze (nella sola battaglia
di Tannenberg morirono 300mila russi), distruzioni di ogni tipo, pogrom,
carestie e miseria, circondato da potenze ostili che imposero dapprima un
blocco commerciale criminale e poi favorirono la minaccia fascista.
L’industrializzazione e la modernizzazione di un territorio così vasto (lo zar
e la chiesa ortodossa erano stati di gran lunga i maggiori proprietari
fondiari), dove fino al giorno prima vigeva di fatto la servitù della gleba
(abolita formalmente nel 1861), venne operata in base a una pianificazione
dell’economica per tappe forzate che ottenne indubbi successi ma a fronte di
costi umani elevatissimi e del prevalere di una burocrazia dispotica e di
organismi repressivi spietati che segnarono irreversibilmente la natura di quel
sistema sociale e politico.
Questo significa che assieme a tale
esperienza storica è tramontata per sempre la possibilità stessa del
cambiamento? Lo vorrebbero far
credere e molti se ne convincono, non perché sono stupidi ma perché vivono
nelle contraddizioni che a tutti i livelli solcano la formazione sociale
capitalistica. Un lettore del blog, in un commento, osserva che fin quando
avremo il frigorifero pieno (ci sono però sempre più frigoriferi abitati da
topolini che piangono) nessuno avrà interesse e voglia di un effettivo
cambiamento. Nei paesi del cosiddetto primo mondo per diversi decenni il
riformismo ha avuto un certo successo, consentito da diversi fattori e
dall’enorme debito pubblico. Le cose stanno ora cambiando per i motivi che
grossomodo conosciamo tutti, e non si tratta più di far fronte come in passato
a una crisi di ciclo, ma si è in presenza di una crisi di sistema,
effettivamente epocale, più grave e profonda di quanto riusciamo a percepire
attraverso la manipolazione ridondante dei media. “Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso,
così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza
che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le
contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze
produttive della società e i rapporti di produzione”.
I prossimi anni, i decenni a venire, diranno non solo
fino a che punto questo sistema economico e sociale potrà reggere, ma
soprattutto come, con quali mezzi, la classe dirigente di questo pianeta
ritiene di dover affrontare problemi di natura e dimensioni così inedite. C’è
un solo modo per affrontarli, essere radicali, che significa andare alla radice
di tali problemi. Una strada che la borghesia perente non può e non vuole
percorrere, perciò tende a rafforzare tutte le tendenze ideologiche che possono
distogliere l'attenzione e il conflitto dai veri obiettivi. L’aristocrazia del
denaro, lo dice il Novecento, preferisce altre strade. Allora subentrerà, per
dirla con Marx, una fase in cui gli uomini saranno costretti ad agire rivoluzionariamente
non solo contro alcune condizioni
singole della società fino ad allora esistente, ma contro la stessa
“produzione della vita” come è stata fino a quel momento, e sarà del tutto
indifferente, per lo sviluppo pratico, se l’idea di questo rivolgimento sia già
stata espressa mille volte.
(*)“[…] divisione del lavoro e proprietà
privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento
all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al
prodotto dell’attività” [MEOC, V, p. 31].
(**) “Il
comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato
di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto
ora esistente” [cit. p. 34].
(***) Critica al programma di Gotha, 1875.
(****) MEOC, cit., p 34.