venerdì 15 giugno 2012

Dall'euro alla neuro



Intendere la borghesia come una classe sociale ben definita, unita, solidale e decisa, è un errore e uno strabismo che ci porta a giudicare le cose per come non sono. La borghesia – che non va confusa solo con chi ha “i soldi”– è unita negli scopi strategici generali e negli interessi fondamentali, ma è almeno altrettanto divisa per quanto riguarda la tattica come lo è, per parte sua, il proletariato. Non è una novità di oggi. La differenza più evidente su questo tema è che tra le due classi, specie in questa fase storica, il proletariato non ha una propria strategia, e ciò sia per motivi storici e sia perché è stato soggiogato entro i codici totalizzanti dell’egemonia ideologica e senza contrasto che la classe dominante ha saputo imporre.

Tuttavia le divergenze tattiche nel campo della borghesia negli effetti danno luogo a una lotta tra fazioni per così dire “metodologica”. Cercare, ad esempio, differenze veramente sostanziali tra Hollande e la Le Pen, è un esercizio che lascio ad altri poiché trovare diversità nel grado di subalternità e soggezione alle politiche neoliberiste, comunque denominate da parte di questi parassiti, è tempo perso.

* * *

Tra i capisaldi dell’ideologia un posto di rilievo spetta alle teorie sulla crisi. Il primo risultato di tali teorie è far passare l’idea che le cause e anzi la “colpa” della crisi va cercata nella nostra scarsa “adattabilità” al cambiamento, sia sul piano dell’efficienza (sfruttamento) che del nostro “stile di vita”, ossia il livello di relativo benessere e di welfare – insostenibile sul piano della spesa pubblica ma anche sul piano della “razionalità” ambientale – al quale dovremmo man mano rinunciare, come di fatto sta avvenendo con le cosiddette politiche di “rigore”.

Così raccontano le cosiddette teorie dei “vasi comunicanti”, fumosità da letamaio tanto care a Eugenio Scalfari e Giuliano Amato, per citare, oppure le teorie di quegli autentici asini della “decrescita” (*).

In realtà, fatti due conti, si tratta solo di redistribuire, secondo diversi e “innovativi” criteri di “compatibilità”, la ricchezza socialmente prodotta in una fase di ristrutturazione globale dell’economia e della spesa pubblica. Tale processo prosegue per leggi proprie, essendo per il capitale vitale la necessità di espandersi in continuazione per esigenze di valorizzazione, ma naturalmente a questo suo determinismo endogeno non può mancare il sostegno di un disegno strategico e la spinta di tutto ciò che serve sul piano giuridico-legislativo e sostanziale.

Dei due aspetti della faccenda, quello ideologico e quello pratico, s’incaricano categorie diverse di professionisti: politici e intellettuali gregari, tecnici della melodia liberista, semplici analfabeti. I mezzi impiegati e predisposti sono i più vari e vanno dagli accordi commerciali alla manipolazione sistematica delle informazioni e l’organizzazione della “sicurezza”. Anche l’ansia e il panico che si stanno creando ad arte nell’opinione pubblica in questi anni e segnatamente in questi mesi, sono fenomeno importante e anzi essenziale del disegno strategico e di tutto ciò che serve sul piano formale e sostanziale perché l’operazione funzioni, per cui si possono vedere, per esempio, degli “anarchici” ordinati che manifestano per strada, in tasca il bancomat e la carta di credito, protestando contro … le banche!

(*) Si pretende inoltre che quei paesi in cui il modo capitalistico di produzione non è sviluppato, consumino e producano nella misura che si addice ai paesi aventi una produzione capitalistica. Se con ciò si vuoi dire che la sovrapproduzione è solamente relativa, questo è perfettamente esatto; ma tutto il modo capitalistico di produzione è solo un modo di produzione relativo i cui limiti non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso. Come sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli operai del proprio paese la media dei mezzi di sussistenza necessari?
Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale.
Infine, quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e consumare essi stessi i loro prodotti, si perde completamente di vista la natura della produzione capitalistica e si dimentica che il suo scopo è la valorizzazione del capitale e non il consumo.
In breve, tutte le obiezioni che vengono mosse contro i fenomeni tangibili della sovrapproduzione (fenomeni che per altro si verificano indipendentemente da queste obbiezioni) si riducono in ultima analisi all’affermazione che i limiti della produzione capitalistica non sono limiti inerenti alla produzione in generale e, in conseguenza, non sono neanche limiti dello specifico modo di produzione capitalistico. Ma la contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione, consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi.
Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente.
Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione.
Non vengono prodotti troppi mezzi di produzione, per poter occupare la parte della popolazione capace di lavorare. Al contrario. Si crea innanzitutto una parte troppo grande di popolazione che effettivamente non è atta al lavoro ed è costretta dalle sue particolari condizioni a sfruttare il lavoro altrui o ad eseguire dei lavori che possono essere considerati tali solo in un modo di produzione assolutamente miserabile.
In secondo luogo, non si producono sufficienti mezzi di produzione perché tutta quanta la popolazione capace di lavorare possa farlo nelle circostanze più produttive, in modo che il suo tempo di lavoro assoluto venga ridotto dalla massa e dall’efficienza del capitale costante impiegato durante il tempo di lavoro. Ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni.
Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico.
Il limite del modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti:
1. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.
2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato ed al rapporto fra questo lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti ad un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto.
(K. Marx, Il Capitale, critica dell’economia politica, III, cap. 15).

4 commenti:

  1. Ammetto che molto devo apprendere riguardo all'economia politica, per cui molte cose ancora mi sfuggono. Quello che, tuttavia, più mi stupisce è come tali pagine di Marx siano completamente sottaciute dalla pubblicistica economica e politica italiana ed europea.
    Ti chiedo un favore, o meglio un esercizio di stile - sempre che tu ne abbia voglia, chiaro.
    Cosa rispondono (o potrebbero rispondere) gli economisti liberisti a tale critica, ovvero con quali parole si difendono? Eludendole del tutto? Cioè a dire: se per esempio in una trasmissione televisiva qualcuno gli rammentasse tale critica marxista, quali risposte da loro ci si potrebbe attendere?

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  2. censura, ignoranza, pregiudizio ... ideologia
    ciao

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  3. Salve sig.ra Olympe.

    Premetto che leggo Marx da pochi anni, e da qualche settimana il suo blog su consiglio di un conoscente, come ebbi a dirle la volta scorsa. Quindi a proposito di questo suo brano "Intendere la borghesia come una classe sociale ben definita, unita, solidale e decisa, è un errore e uno strabismo che ci porta a giudicare le cose per come non sono".
    Come si fa a definire chi appartiene alla classe borghese dunque, se questa, la borghesia, "non va confusa solo con chi ha i soldi"?
    Un bel dilemma per me, mi creda. Se può farsi carico di questo dilemma, la ringrazio.
    Buona giornata.

    F.G (Franco Guidotti)

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  4. Caro Franco, intendevo dire che non tutti i ricchi sono broghesi e viceversa. per esempio, marx visse in difficoltà economiche ma apparteneva alla classe borghese.

    ma al di là di questo, più in generale, il criterio fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione.

    buona sera a lei

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