Intendere la borghesia come una classe sociale ben
definita, unita, solidale e decisa, è un errore e uno strabismo che ci porta a giudicare
le cose per come non sono. La borghesia – che non va confusa solo con chi ha “i soldi”– è unita negli
scopi strategici generali e negli interessi fondamentali, ma è almeno
altrettanto divisa per quanto riguarda la tattica come lo è, per parte sua, il
proletariato. Non è una novità di oggi. La differenza più evidente su questo
tema è che tra le due classi, specie in questa fase storica, il proletariato
non ha una propria strategia, e ciò sia per motivi storici e sia perché è stato
soggiogato entro i codici totalizzanti dell’egemonia ideologica e senza
contrasto che la classe dominante ha saputo imporre.
Tuttavia le divergenze tattiche nel campo della
borghesia negli effetti danno luogo a una lotta tra fazioni per così dire
“metodologica”. Cercare, ad esempio, differenze veramente sostanziali tra
Hollande e la Le Pen, è un esercizio che lascio ad altri poiché trovare diversità
nel grado di
subalternità e soggezione alle politiche neoliberiste, comunque denominate da
parte di questi parassiti, è tempo perso.
* * *
Tra i capisaldi dell’ideologia un posto di rilievo
spetta alle teorie sulla crisi. Il primo risultato di tali teorie è far passare
l’idea che le cause e anzi la “colpa” della crisi va cercata nella nostra
scarsa “adattabilità” al cambiamento, sia sul piano dell’efficienza
(sfruttamento) che del nostro “stile di vita”, ossia il livello di relativo
benessere e di welfare – insostenibile sul piano della spesa pubblica ma anche
sul piano della “razionalità” ambientale – al quale dovremmo man mano
rinunciare, come di fatto sta avvenendo con le cosiddette politiche di “rigore”.
Così raccontano le cosiddette teorie dei “vasi
comunicanti”, fumosità da letamaio tanto care a Eugenio Scalfari e Giuliano
Amato, per citare, oppure le teorie di quegli autentici asini della
“decrescita” (*).
In realtà, fatti due conti, si tratta solo di
redistribuire, secondo diversi e “innovativi” criteri di “compatibilità”, la
ricchezza socialmente prodotta in una fase di ristrutturazione globale
dell’economia e della spesa pubblica. Tale processo prosegue per leggi proprie,
essendo per il capitale vitale la necessità di espandersi in continuazione per
esigenze di valorizzazione, ma naturalmente a questo suo determinismo endogeno
non può mancare il sostegno di un disegno strategico e la spinta di tutto ciò
che serve sul piano giuridico-legislativo e sostanziale.
Dei due aspetti della faccenda, quello ideologico e
quello pratico, s’incaricano categorie diverse di professionisti: politici e
intellettuali gregari, tecnici della melodia liberista, semplici analfabeti. I
mezzi impiegati e predisposti sono i più vari e vanno dagli accordi commerciali
alla manipolazione sistematica delle informazioni e l’organizzazione della
“sicurezza”. Anche l’ansia e il panico
che si stanno creando ad arte nell’opinione pubblica in questi anni e
segnatamente in questi mesi, sono fenomeno importante e anzi essenziale del
disegno strategico e di tutto ciò che serve sul piano formale e sostanziale
perché l’operazione funzioni, per cui si possono vedere, per esempio, degli
“anarchici” ordinati che manifestano per strada, in tasca il bancomat e la
carta di credito, protestando contro … le banche!
(*) Si
pretende inoltre che quei paesi in cui il modo capitalistico di produzione non
è sviluppato, consumino e producano nella misura che si addice ai paesi aventi
una produzione capitalistica. Se con ciò si vuoi dire che la sovrapproduzione è
solamente relativa, questo è perfettamente esatto; ma tutto il modo
capitalistico di produzione è solo un modo di produzione relativo i cui limiti
non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso. Come
sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse
merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba
cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli
operai del proprio paese la media dei mezzi di sussistenza necessari?
Precisamente
perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in
eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a
disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale.
Infine,
quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e
consumare essi stessi i loro prodotti, si perde completamente di vista la
natura della produzione capitalistica e si dimentica che il suo scopo è la
valorizzazione del capitale e non il consumo.
In breve,
tutte le obiezioni che vengono mosse contro i fenomeni tangibili della
sovrapproduzione (fenomeni che per altro si verificano indipendentemente da
queste obbiezioni) si riducono in ultima analisi all’affermazione che i limiti
della produzione capitalistica non sono limiti inerenti alla produzione in
generale e, in conseguenza, non sono neanche limiti dello specifico modo di
produzione capitalistico. Ma la contraddizione esistente nel modo capitalistico
di produzione, consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle
forze produttive che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le
specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può
solo muoversi.
Non
vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione
esistente.
Al
contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo
conveniente ed umano la massa della popolazione.
Non
vengono prodotti troppi mezzi di produzione, per poter occupare la parte della
popolazione capace di lavorare. Al contrario. Si crea innanzitutto una parte
troppo grande di popolazione che effettivamente non è atta al lavoro ed è
costretta dalle sue particolari condizioni a sfruttare il lavoro altrui o ad
eseguire dei lavori che possono essere considerati tali solo in un modo di
produzione assolutamente miserabile.
In
secondo luogo, non si producono sufficienti mezzi di produzione perché tutta
quanta la popolazione capace di lavorare possa farlo nelle circostanze più produttive,
in modo che il suo tempo di lavoro assoluto venga ridotto dalla massa e
dall’efficienza del capitale costante impiegato durante il tempo di lavoro. Ma
vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché
possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un
determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il
valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e
riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo
inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa
compiersi senza che si verifichino continue esplosioni.
Non viene
prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta
troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere
antitetico.
Il limite
del modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti:
1. Lo
sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio
del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone
inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo
essere superata per mezzo di crisi.
2.
L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al
rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità
socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato ed
al rapporto fra questo lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale
o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto
fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello
del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti ad un certo grado di
sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai inadeguato sotto l’altro punto di
vista. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la
produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto.
(K. Marx, Il Capitale, critica dell’economia
politica, III, cap. 15).
Ammetto che molto devo apprendere riguardo all'economia politica, per cui molte cose ancora mi sfuggono. Quello che, tuttavia, più mi stupisce è come tali pagine di Marx siano completamente sottaciute dalla pubblicistica economica e politica italiana ed europea.
RispondiEliminaTi chiedo un favore, o meglio un esercizio di stile - sempre che tu ne abbia voglia, chiaro.
Cosa rispondono (o potrebbero rispondere) gli economisti liberisti a tale critica, ovvero con quali parole si difendono? Eludendole del tutto? Cioè a dire: se per esempio in una trasmissione televisiva qualcuno gli rammentasse tale critica marxista, quali risposte da loro ci si potrebbe attendere?
censura, ignoranza, pregiudizio ... ideologia
RispondiEliminaciao
Salve sig.ra Olympe.
RispondiEliminaPremetto che leggo Marx da pochi anni, e da qualche settimana il suo blog su consiglio di un conoscente, come ebbi a dirle la volta scorsa. Quindi a proposito di questo suo brano "Intendere la borghesia come una classe sociale ben definita, unita, solidale e decisa, è un errore e uno strabismo che ci porta a giudicare le cose per come non sono".
Come si fa a definire chi appartiene alla classe borghese dunque, se questa, la borghesia, "non va confusa solo con chi ha i soldi"?
Un bel dilemma per me, mi creda. Se può farsi carico di questo dilemma, la ringrazio.
Buona giornata.
F.G (Franco Guidotti)
Caro Franco, intendevo dire che non tutti i ricchi sono broghesi e viceversa. per esempio, marx visse in difficoltà economiche ma apparteneva alla classe borghese.
RispondiEliminama al di là di questo, più in generale, il criterio fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione.
buona sera a lei