lunedì 14 settembre 2015

"Bisogna aspettare una certa calma, un certo ordine”


Tema scottante, oggi.

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Di che cosa volete che parli oggi, di quanta pioggia è caduta e sta cadendo o delle avventure buffonesche di un giovanotto ignorante che ancora non si capacita di come sia arrivato ad essere presidente del consiglio dei ministri? Suvvia, vi annoierò invece parlandovi, come si suole dire, del futuro guardando al passato. Di quel futuro cui non si vuol credere fino a quando …..

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Nella notte tra il 14 e il 15 luglio 1789, il duca François Alexandre Frédéric de La Rochefoucauld-Liancourt (che pochi giorni dopo diventerà presidente della Assemblea Nazionale Costituente) fece svegliare Luigi XVI per comunicargli la presa della Bastiglia. “È dunque una rivolta” disse il re, secondo una celebre versione dell’aneddoto. “Sire”, rispose il duca, “è una rivoluzione”.

Scrive Hippolyte Taine nella sua monumentale opera:

“Il potere non soltanto era scivolato via dalle mani del re, ma non era caduto nemmeno in quelle dell’Assemblea; era per terra, nelle mani di un popolo scatenato, di una folla brutale e sovreccitata, di bande violente che lo raccoglievano come fosse un’arma abbandonata. In realtà, non c’era più governo; l’edificio artificiale della società umana crollava; si ritornava allo stato di natura. Non era una rivoluzione, ma una dissoluzione.”

Riporta il Taine quanto scriveva, fin dai primi giorni, un subdelegato:

“la risoluzione con cui questa gente agisce è sorprendente: sono spaventato di quello che ho visto e sentito. […] Non esistono più laboratori in funzione; i signori e i borghesi, costretti a rinunciare alle loro rendite, non possono dare lavoro, [così] il popolo affamato non ha più nulla da perdere”.

Ecco qui il punto: quando non si ha più nulla da perdere, scuotere il mondo ab imis è l’unica cosa che resta da fare. I padroni di questo mondo, che pur tanto tirano la corda, sembrano consapevoli di questo fatto. E però a un certo momento le cose non dipendono più da loro.

Nessuno, nemmeno tra quelli che paventavano o auspicavano un mutamento di regime radicale in Francia, poteva sospettare, non solo prima, ma anche subito dopo il 14 luglio, la piega drammatica che avrebbero man mano preso quegli avvenimenti. Nessuno poteva immaginare che in pochi anni sarebbero state decapitate e giustiziate decine di migliaia di persone, compresi il re, la regina e quasi tutta la vecchia élite aristocratica, e che la Francia e l’Europa non sarebbero state più le stesse.

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Alla metà del XIX secolo molti proprietari, scrittori e politici potevano vantare, con ragione, le magnifiche sorti e progressive degli Stati del Sud americano, la prosperità economica e stabilità sociale raggiunta. Tutto si reggeva sugli schiavi, il cui lavoro garantiva ogni tipo di servizio e ghiotti profitti. La schiavitù sembrava un’istituzione intramontabile, e anche tra coloro che apertamente dicevano che essa non sarebbe potuta durare in eterno veniva ammesso che certo si sarebbe mantenuta ancora a lungo.

Nel 1860 quello che nessuno aveva previsto puntualmente accadde. Secondo Mark Twain, la guerra civile, con le sue conseguenze, “smantellò istituzioni vecchie di secoli e trasformò la politica di un popolo intero e modificò la vita sociale di metà del paese”. La fine dello schiavismo implicò tali trasformazioni che gli storici ammettono essere difficile descriverle, poiché privò la vecchia classe dei proprietari di schiavi del loro potere totalitario e ne compromise irrimediabilmente la posizione economica e sociale.

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Nessuno in Russia, compresi i bolscevichi, non solo prima della guerra ma anche dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, poteva prevedere la portata di ciò che ebbe inizio con l’abdicazione di Nicola II e in seguito con il colpo di cannone dell’Aurora. Nessuno dicevo, tranne un anarchico, Maksim Aristàrchovic Klincòv-Pogorevšich, a detta di Pasternàk, il quale scrive post festum:

E cominciò con una nuova fantasmagoria.
Pogorevšich disse che Blažejkov era stato per lui solo un pretesto e Zybušino un luogo come un altro dove applicare le proprie teorie. Jùrij Andrèevič [Živàgo] lo seguiva a stento. La filosofia di Pogorevšich era costituita per metà da tesi anarchiche  e per metà da volgari frottole da cacciatore.
Con un imperturbabile tono da oracolo prediceva per i prossimi tempi sconvolgimenti catastrofici. Jùrij Andrèevič dentro di sé era d’accordo e forse quegli sconvolgimenti erano davvero inevitabili, ma lo indisponeva la sicurezza piena di prosopopea con cui l’antipatico giovanotto snocciolava le sue profezie.
“Un momento, un momento”, tentò di obiettare Živàgo. “Tutto questo va bene, può anche essere. Ma, secondo me, non è il momento di compiere esperimenti così rischiosi in mezzo al caos, al disordine, di fronte al nemico che incalza. Bisogna lasciare che il paese si riprenda e che riposi dopo un rivolgimento, prima di buttarsi in un altro. Bisogna aspettare una certa calma, anche se relativa, un certo ordine”.

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Il fallimento di questo sistema economico, le sue contraddizioni e le molte irrazionalità, si può cogliere nei fatti e però, per esempio, anche nelle parole d’impotenza che ieri venivano stampate a pagina cinque del quotidiano della Confindustria:

Come potrebbero rispondere le banche centrali a una prossima eventuale recessione? Con i tassi pressoché a zero in America, Europa e Giappone o a livelli infimi, come in Cina e in tanti altri Paesi, la politica monetaria convenzionale non ha più leva. La risposta ad una nuova ipotetica crisi sarebbe fare ulteriori quantitative easing, ossia creare moneta per comprare altri titoli di Sato, bond vari e persino azioni.

Chiaro che sono alla disperazione. Fino a quando reggerà il bluff di stampare moneta e cioè d’immettere sul mercato altra carta senza alcun valore sottostante? L’escamotage monetario (si tratta dell’emissione di puri e semplici mezzi di circolazione) ha retto a lungo (la Fed lo fa in modo massiccio dal 2009) e potrà continuare ancora, ma si tratta di una vertigine che non può durare all’infinito.

Il credito che le banche centrali concedono sotto forma di moneta (o tramite l’acquisto di titoli in possesso delle banche private) può essere considerato alla stregua di cambiali. Più in generale il biglietto di banca (sia esso reale o anche solo virtuale) non è altro che una cambiale sul banchiere, pagabile in qualsiasi tempo al portatore e che il banchiere sostituisce alle cambiali private. Aumenta la complessità, ma lo schema, rispetto al passato, resta sostanzialmente uguale.

Il rischio concreto è di passare – improvvisamente – a una situazione generalizzata di panico dove tutti cercano di vendere per salvarsi e i prezzi dei titoli precipitano verso lo zero, debiti e crediti non si compensano, frana la fiducia sulla solvibilità (in specie degli Sati) su cui poggia il castello di carta del debito.

Sempre dall’articolo citato:

La domanda che ci siamo posti all’inizio è tutt’altro che peregrina. Willem Buiter, capo economista di Citibank, ritiene che le probabilità di una recessione globale nei prossimi due anni siano pari al 55%. Non è chiaro in base a cosa il modello abbia elaborato quella percentuale, ma una minima conoscenza della storia economica suggerisce che le probabilità di un simile evento sono piuttosto elevate, dopo sei anni dall’ultima recessione.

I loro modelli non servono assolutamente a nulla perché non sono in alcun modo basati su un’analisi scientifica delle cause della crisi del modo di produzione capitalistico e sui suoi effetti nell’ambito della circolazione. La loro risposta può essere dunque solo empirica: il sistema è soggetto a crisi. Sì, questo lo vedono tutti, ma esse sono sempre più frequenti e non già alternate a fasi d’espansione, come per il passato, in una situazione di recessione perenne, come peraltro conferma il termometro dei tassi d’interesse.

Siamo entrati nell’epoca della crisi storica generale del capitalismo, ma non se ne vuole prendere atto, almeno apertamente. L’unica cosa che possono fare questi collezionisti di serie statistiche è guardare il termometro senza comprendere i reali motivi a fondamento della crisi e continuando a drogare il moribondo incrociando le dita che un miracolo si compia. Tanto che lo stesso giornale dieci giorni prima scriveva:

Di certo le variabili sono talmente tante, così complesse e in larga parte senza precedenti, da rendere ardua qualsiasi previsione. Per dirla con le parole di Jim Reid, capo economista di Deutsche Bank, «stiamo volando alla cieca».


Il “commercio del vento” per l’ennesima volta è prossimo a una nuova tempesta, però su una scala d’altezza incomparabilmente maggiore e vasta quanto il pianeta. È solo questione di tempo, come anche i Pogorevšich sanno quando vedono nubi nere profilarsi all’orizzonte.

9 commenti:

  1. sanno, hanno capito benissimo, che la crisi è storica e generale e proprio per questo cercano di ripartirla, redistribuirla, democratizzaral, metterla in 'circolazione'; e questo non lo possono fare che prendendo tempo attraverso illusioni. Il tempo, prima ancora che lalegge, non è mica uguale per tutti! Un minuto in conflitto d'interesse vale una vita in autonomia. Come diceva goethe non sono qui per farmi illusioni, ma per conoscere me stesso attraverso il rapporto con gli oggetti. Il contrario di Goethe bisogna fare, la gente, il popolo, non deve conoscere se stessa attraverso i fatti, non devono confidarsi l'un l'altro la propria schiavitù, devono tifare e servire, lavorare e sperare, riprodursi alla bisogna. Bisogna vender loro illusioni, equiparare il tifo alla partecipazione, il servire al lavorare, il presente al futuro ecc. Bisogna appoggiare giovanotti ignoranti ma ben avventuristi e possibilmente buffoneschi. E più durano nel presente più le Olympe han voglia di scrviere delle rivoluzioni passate. Illusione è d'altronde pensare che da un giorno all'altro vi sia rivolta, che poi in realtà era rivoluzione, che poi in realtà era terrore e così via. Non sta bene scriverlo, ma anche le sovversioni si organizzano, iniziando dal terrore in realtà. Nel senso che non si tratta di seminare il panico generale come continua a fare la borghesia nel mondo. Le paure non possono più essere uguali per tutti.

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    1. nell'ultima frase, che mi pare di aver già sentito, mi trovi perfettamente d'accordo.
      per il resto, e quanto mi riguarda personalmente, non mi pare di aver dato mai il minimo adito ad illusione, anzi al contrario. il limitato seguito di questo blog ne è la conferma.

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    2. com'era? libenter homines id, quod volunt, credunt.

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    3. è vero che tanto più a lungo le rivoluzioni son state considerate impossibili, tanto più facili appaiono una volta iniziate; ci sarà dello scetticismo iniziale, poi dell'incredulità, infine serendipity! La rivoluzione, almeno per la classe sociale a cui appartengo, sarà un pranzo di gala. Sarà divertente come l'effetto palla di neve ma dal basso all'alto, perché le rivoluzioni, per essere tali, rovinano dal basso in alto, sempre più in alto, fino a scavalcare l'ordine vigente. Il punto è la maturità di un nuovo sistema, ovvero quando l'aldilà dell'attuale sistema diventa qui, ora. Mentre il vecchio deperisce il nuovo s'alimenta e cresce e butta germogli, ma solo quando maturo in tutte le sue parti, va colto. Noi da poveri pedoni è all'inizio che dobbiamo guardare con ordine, alla radice per così dire (s'ha da essere radicali perdio!), è dall'inizio che dobbiamo organizzarci per bene, senza paura, senza sconti. E l'inizio vero - come non manchi mai di scrivere benissimo e per me son parole d'ordine - è nel cuore della produzione. E' lì che conviene attaccare. Ma è lì, pure, la maggior differenza con le opportunità di rivolta precedenti.

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  2. la differenza tra rivolte e rivoluzioni è che nelle seconde , "le masse" , che sono sempre cieche" ,vengono guidate al " successo" da chi ci vede "benissimo"... anche se spesso "le guide" cambiano in corso d' opera :-)

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    1. la dittatura del proletariato significa non avere capi.

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  3. Riconoscerlo, per certa gente, è arduo. Come se il Papa dubitasse dell'esistenza di Dio.

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  4. Beh,ragazzi,coraggio...la condizione da salariato a servo,sta avanzando..oggi ho saputo che la Telecom,un tempo un gioiello,taglia 40 minuti,ma toglie 200 euro al mese ai riparatori,assumendo forse tremila ex olivetti ,che da ex salariati passano passeranno a nuovi servi.
    Lavorare tutti,lavorare meno era un vecchio slogan...solo che forse qualcuno lo interpreta come lavorare tutti ,da nuovi servi e zitti e a cuccia.
    Ne vedremo ancora delle belle ...c'e' tempo ,come dice Olympe ..

    caino

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  5. niente paragoni con le rivoluzioni politiche, niente analogie, l' evento non avverrà, se avverrà, come venne quell'unica volta. in comune forse solo l'azzardo di vedere quello che tutti l'altri non vedono

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