domenica 19 gennaio 2014

Il lato B del capitalismo


Ciò che i padroni non sono assolutamente disposti a concedere,
è che i profitti possano essere spartiti con gli schiavi che li hanno prodotti.
Lo reputano un fatto ingiusto e innaturale,
così come un tempo apparivano naturali
altri tipi di disuguaglianza sociale.


Nel post precedente ho descritto, con degli esempi semplici, come le condizioni di vita generali e segnatamente quelle delle classi subalterne risultino oggi, rispetto a secoli precedenti, incomparabilmente migliori. Si tratta dell’aspetto più positivo dello sviluppo economico e sociale quale portato del modo di produzione capitalistico nelle aree di più antica industrializzazione. In questo post, invece, intendo riferirmi dapprima a come tutto ciò sia avvenuto incidentalmente, ossia sostanzialmente come tendenza necessaria del capitale e non come scopo scientemente e globalmente perseguito, e poi accennare a come le stesse leggi di tendenza, a questo grado di sviluppo capitalistico e nonostante certe apparenze, frenino e ostacolino lo sviluppo tecnologico e scientifico della società.

*



La produzione capitalistica, la quale non produce beni per soddisfare dei bisogni ma produce merci per valorizzare il capitale investito, mostra in generale un grande interesse per l’innovazione e l’impiego di nuove tecnologie poiché esse rendono il lavoro più produttivo e ciò riduce da un lato il tempo di lavoro necessario a produrre le stesse merci, e dall’altro abbassa il costo della manodopera. Ciò avviene in ogni fase storica del capitalismo, ma soprattutto nelle fasi e nei rami produttivi nei quali è più agguerrita la concorrenza tra capitali, in modo che la tecnologia, sempre più perfezionata, spinga il lavoro a fornire più prodotto nel medesimo tempo e dunque renda le merci più competitive fin tanto che i nuovi processi produttivi non si generalizzano.

In tale modo i processi produttivi si pongono come problemi pratici che possono essere risolti solo scientificamente e la produzione diviene sfera di applicazione della scienza così come essa diviene fattore del processo produttivo. Il modo di produzione capitalistico pone così per primo le scienze naturali al servizio immediato del processo di produzione e la scienza ottiene il riconoscimento di essere un mezzo per produrre ricchezza. Il fattore scientifico è così impiegato in dimensioni inedite ad altre epoche e gli uomini che si occupano di scienza sono messi in reciproca concorrenza nel tentativo di trovare applicazione pratica alle loro scoperte e innovazioni.

Quanto precede è, per così dire, il lato virtuoso del modo di produzione capitalistico, poiché il capitale nella ricerca incessante di risparmiare lavoro e incrementare la produzione stimola l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica.

C’è da mettere in luce al riguardo alcuni aspetti particolari. La maggiore produttività del lavoro raggiunta nell’ultimo secolo con l’introduzione di macchine e tecniche più efficienti, pur avendo notevolmente abbassato il valore delle merci prodotte e aumentato la parte di lavoro non pagata (il lavoro è merce, anzi è la merce per eccellenza), non ha però comportato riduzioni della giornata lavorativa, rimasta sostanzialmente inchiodata nei settori produttivi alle otto ore giornaliere.

(Del resto, i sindacati, divisi in ambito categoriale e nazionale, divisi in ambito continentale e internazionale, dal dopoguerra in poi hanno puntato, non a caso, sugli adeguamenti salariali ma hanno del tutto trascurato il problema della riduzione della giornata lavorativa. Politica sindacale che, malgrado la crisi, perdura tutt’ora. Non a caso, sempre non a caso).

Inoltre, l’apparente leggerezza della mutata forma del lavoro che riversa sul macchinario quasi ogni abilità, consente da un lato di sostituire le vecchie maestranze, orgogliose della propria professionalità, con operai meno qualificati e perciò più soggetti al controllo del capitale, e dall’altro di portare i salari al minimo medio, ossia di ridurre i costi di produzione alla capacità del lavoro semplice.

Pertanto il capitalista non introduce nuove macchine e tecnologie perché è un estimatore della scienza e del progresso tecnico, il capitale non crea scienza ma la sfrutta appropriandosene nel processo produttivo, ossia unicamente allo scopo di rendere più produttivo il lavoro, per ridurre i costi di produzione, il costo degli operai, la quota dei loro salari, e dunque per aumentare la parte di lavoro erogata dall’operaio e non pagata dal padrone.

Ciò che governa il miglioramento tecnico e il progresso tecnologico nella produzione capitalistica è il furto del tempo di lavoro altrui sul quale si basa la ricchezza odierna, e tuttavia la brama di profitto del singolo capitalista risponde alla tendenza necessaria del capitale in obbligo della legge generale della produzione capitalistica.

Se da un lato il capitale introduce nuove macchine più efficienti per ridurre il tempo di lavoro necessario e dunque per appropriarsi di una quota sempre maggiore di pluslavoro, ossia di lavoro non pagato, la stessa legge di tendenza lo porta contraddittoriamente ad agire in senso contrario per far fronte a degli effetti non desiderati dell’introduzione massiccia di nuove macchine.

Infatti, man mano che il lavoro passato, sottoforma di macchine e impianti, dunque di capitale costante, si fa proporzionalmente più massiccio rispetto al lavoro immediato (capitale variabile), cambia la proporzione tecnicamente necessaria per la sua combinazione con una determinata quantità di lavoro vivente. Ciò determina una conseguenza assai sfavorevole per il capitale: aumentando la componente tecnica del capitale in rapporto alla quantità di lavoro, anche se il plusvalore (saggio di sfruttamento) resta invariato oppure dovesse aumentare, il saggio del profitto (rapporto tra plusvalore e capitale complessivo) è destinato a scendere.

Questa tendenza è espressione peculiare al modo di produzione capitalistico, e in conseguenza della natura stessa di questa produzione, come necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto (**). L’aumento della composizione organica del capitale, come tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico, rappresenta la causa delle crisi di sovrapproduzione, così come la categoria del saggio del profitto svolge un ruolo fondamentale nell’economia politica, in quanto il suo movimento è alla base della crisi del modo di produzione capitalistico.

Naturalmente la tendenza, appunto perché tale, non si esprime in forma assoluta, e ne faccio qui cenno necessariamente ma non entro in dettaglio perché non è questo il tema del post. Chi volesse, se già non la sa lunga sull’argomento, può rivolgersi ai capp. 13, 14 e 15 del III libro de Il Capitale, critica dell’economia politica.

Ancora. La legge dell’aumento della composizione organica del capitale va letta non solo dal lato del valore, ma anche dal lato della grandezza fisica dei mezzi di produzione in rapporto alla forza-lavoro che attiva. Pertanto a un determinato livello dell’accumulazione la scala della produzione è data tecnicamente poiché per la sua espansione è necessaria una quantità definita di capitale, e dunque la grandezza di plusvalore che si richiede per consentire la sua valorizzazione non è arbitraria, bensì sottoposta a vincoli tecnici.

Altro aspetto contraddittorio, sempre inerente ai fenomeni indotti dall’aumento della composizione organica del capitale quale espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro per mezzo dall’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, è dato dal fatto che ogni prodotto, considerato in se stesso, contiene non solo una quantità minore di lavoro di quanto avviene nei gradi più arretrati della produzione, ma anche una quantità proporzionalmente minore del capitale costante investito. Vale a dire che gli enormi costi per nuovi impianti e macchinari sono trasferiti (nel proprio valore) nelle merci solo in misura molto più graduale, e dunque il tempo per il loro ammortamento diventa più lungo. E ciò non è, come si può agevolmente intuire, senza conseguenze sul piano dell’innovazione tecnologica e dunque degli investimenti dedicati alla ricerca e sviluppo, in quanto il capitale s’aspetta di recuperare gli investimenti nel più breve tempo possibile.

Tutto questo e molto altro ha un preciso significato, ossia che l’accumulazione capitalistica è un processo gravido di crisi e, semmai, se fossimo troppo ingenui, ci dovremmo stupire che le sue contraddizioni non esplodano in forme sociali ancora più deflagranti. Ma tempo al tempo.



(*) È da rilevare che in tal modo si accresce anche il numero delle merci nelle quali riappare – in parti aliquote – il valore del macchinario; quindi tanto minore è la componente di valore delle nuove macchine che riappare nella singola merce (ne tratto alla fine del post così come di altre determinazioni peraltro assai interessanti inerenti il saggio del plusvalore e del profitto). 

(**) È questo, osserva Marx nel capitolo tredicesimo del III libro, un fenomeno la cui esistenza gli economisti non sono risusciti a scoprire nelle loro reali cause, e soggiunge che data “l’enorme importanza che questa legge riveste nella produzione capitalistica, possiamo dire che essa costituisce il mistero da svelare alla cui soluzione si è affaticata tutta l’economia politica sin da Adam Smith”.


2 commenti:


  1. Una piccola cosa:

    Aiutateci a resistere, grazie.
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    intestato a Pietro Davy e Maria Chiara Cebrari." Alberto Perino

    Per saperne di più:
    http://www.beppegrillo.it/2014/01/colpevoli_di_difendere_la_nostra_terra_di_alberto_perino.html

    gianni, ciao

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  2. Bisognerebbe esporre questo post nelle università tecnico/scientifiche giusto per chiarire un po' le idee ai poveri studenti. Ho passato anni a sentir dire che la ricerca in Italia non funziona perchè non è adeguatamente correlata all'industria... gran bella mistificazione (ottimo sinonimo di Cxxxxta) ... bello perchè è come dire che per far funzionare la ricerca è necessario sfruttare il lavoro intellettuale delle persone (nonchè le strutture universitarie che paghiamo noi), impadronirsi dei risultati della ricerca pubblica, magari brevettarli, e fare soldi alla facciazza nostra.... ma come al solito le cose ovvie non sono ovvie per niente

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