È ancora troppo presto per tracciare un giudizio storico su Gorbačëv? In Russia non sono pochi quelli che pensano e dicono che Michail Sergeevič è responsabile della distruzione e liquidazione del Paese come grande nazione e come potenza mondiale. Lo stesso interessato era consapevole di tale non marginale sentimento. Solo con Vladimir Putin la Russia, a fatica, si sta riappropriando del ruolo internazionale che le spetta. E ciò ovviamente non garba a Washington, tantomeno una Russia in stretti legami economici (e simpatie politiche!) con l’Europa.
Ad ogni modo, va detto che la responsabilità politica e storica di ciò che è accaduto con l’implosione dell’Urss non può essere attribuita in positivo e in negativo a un singolo personaggio (sul piano storiografico, poiché di questo ormai si tratta, e dunque più che gli archivi moscoviti sarebbe interessante consultare gli “arcana” statunitensi).
Molto di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio sovietico è conseguenza di ciò che per comodità chiamiamo stalinismo, nelle sue diverse farsi storiche e per accumulazione, ossia fino alla fine dell’Urss.
Le cause essenziali e profonde di quel lungo e controverso fenomeno storico non sono ovviamente liquidabili in poche frasi, tuttavia mi pare utile richiamare in radice i sofferti tentativi di risposta di Karl Marx alla lettera di Vera Zasulič in tema dell’obščina. Marx prese a studiare la lingua russa, i documenti e le statistiche russe, redasse quattro lettere preparatorie di risposta a Zasulič, ma infine scrisse una breve risposta e da tutti questi scritti si può trarre senza impacci la conclusione che egli riteneva indispensabile anche per la Russia una fase di transizione capitalistica.
Il 1917, ossia la guerra, cambiò tutto, come spesso accade in simili frangenti. Dopo il colpo di stato del febbraio che sloggiò lo zarismo, per Lenin e Trotskij si presentò un’occasione irripetibile, che non si lasciarono sfuggire. Tuttavia Lenin aveva consapevolezza dei problemi e nei ultimi suoi scritti ipotizzò che la famosa NEP (Nuova politica economica) potesse durare “decenni”. Trotskij, dal canto suo, non riteneva realizzabile il socialismo in un solo paese, tanto più economicamente e socialmente arretrato come la Russia.
L’impostazione leniniana e poi staliniana e maoista fu un’interpretazione unilateralmente semplificata dello sviluppo storico, cioè esposta a un determinismo economicistico che nelle condizioni date non poteva non sfociare in ciò che abbiamo conosciuto. Ad ogni modo, se la Cina è potuta diventare ciò che è oggi, lo deve senza’altro in primo luogo a Mao e ai suoi successori, altrimenti sarebbe una colonia americana sotto gli eredi di Chiang Kai-shek.
L’esempio sovietico e cinese, così come altri equipollenti, mostra come il trasferimento della proprietà giuridica dei mezzi di produzione allo Stato, non comporti necessariamente anche la metamorfosi rivoluzionaria dell’organizzazione della produzione e della società nel suo insieme (cosa che i dirigenti postmaoisti hanno ben chiara). Tanto più che il socialismo non è un modo di produzione particolare (assunto difficile da far comprendere sia di qua che di là della barricata ideologica).
Il comunismo – scrisse Marx – non è un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, non è uno stato di cose che debba essere instaurato. Il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. E ciò presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica.
Però c’è qualcosa che non torna. Prendiamo la Cina, va bene. Mi ricordo un mio amico, che faceva parte di Servire Il Pollo, il quale mi spiegava pazientemente perché la Cina era meglio dell’URSS. Semplice: la rivoluzione cinese era partita dalle campagne, quella russa dalle città. Così era più ortodosso, diceva, il che significava che c’erano più possibilità di successo. Faccenduole come il Grande Balzo in Avanti non lo smuovevano, e io non amavo contraddirlo, perché era tanto un bravo ragazzo.
RispondiEliminaAdesso l’ho perso di vista, ma se dovessi incontrarlo di nuovo spero non mi venga a dire “visto? Avevo ragione”, sulla base del fatto che obiettivamente c’è stato un progresso nel tenore di vita dei cinesi e anche nella potenza complessiva della Cina. Se me lo dicesse, prenderei il coraggio a due mani, e gli spiegherei che la Cina è progredita precisamente perché è il paese più capitalista del mondo, nel senso maxweberiano. Forse non occorrerebbe spiegarglielo, ma se per caso non capisse lo porterei in via Paolo Sarpi a Milano una domenica, per fargli vedere i cinesi che lavorano come bestie. Poi, se non avesse ancora capito, gli farei intervistare qualche cinese che conosco io, che gli spiegherebbe ingenuamente come mai un colore poco più scuro della pelle gli sembra rivoltante, tanto che quando vanno al mare stanno vestiti, anche se non sono musulmani. Che c’entra questo con il PIL che aumenta? Mi sa che c’entra.
Tutto ciò posto, ancora non ho capito in cosa consiste il nuovo modo di produzione che succede(rà) alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato. Ho solo capito che certamente non è quello attuale cinese.
aver capito che non è quello attuale cinese è già un balzo in avanti.
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