Nelle ultime settimane le brusche oscillazioni di Wall Street, e a seguire quello delle altre borse, in forte calo un giorno per riprendersi il giorno dopo, riflettono la grande incertezza su quanto potranno continuare i massimi record, finanziati da triliardi di dollari ed euro dalla Fed e dalla Bce, e se ci sarà un grande crisi.
Questa settimana è iniziata con quella che il Wall Street Journal ha descritto come una “drammatica svendita”. Il Dow è sceso di 725 punti, 2,1 per cento, mentre l’indice di riferimento S&P 500 è sceso dell’1,6 percento. Significativamente, il rendimento dei titoli del Tesoro a 10 anni, che è un indicatore della fiducia degli investitori nelle prospettive future dell’economia, è sceso a circa l’1,2% (c’è stata una corsa alla sicurezza, con l’aumento della domanda di buoni del Tesoro che ha fatto salire il loro prezzo: rendimento e prezzo sono inversamente proporzionali), mentre i prezzi del petrolio sono scesi del 7,5%, nel loro più vistoso calo di un giorno dallo scorso settembre.
Si sostiene che il principale impulso per il selloff di Wall Street, riflesso a livello globale con l’indice europeo Stoxx 600 nella sua peggiore sessione dell’anno, sia dovuto all’impatto della variante Delta del coronavirus. Può essere, in questa altalena ci può stare di tutto.
Nulla di che, s’è visto ben altro, ma si tratta comunque di un indicatore del nervosismo che precede storicamente i grandi tonfi. Siamo seduti sopra un vulcano, quello del debito pubblico e privato. C’è da chiedersi perché il “tappo” non sia ancora saltato e quanto ancora possa venir compresso con denaro a go-go.
Poi, come dopo i precedenti forti selloff, Wall Street si è ripresa martedì. L’S&P 500 è aumentato dell’1,5%, il maggiore aumento di un giorno da marzo, quasi azzerando le perdite del giorno precedente. Anche il Dow è salito, insieme al NASDAQ, con il risultato che i tre indici erano al 2% dei loro massimo del 12 luglio. L’aumento è continuato mercoledì, anche se non allo stesso ritmo, lasciando l’S&P a solo lo 0,6% dal suo record. Ieri c’è stato un aumento marginale di tutti e tre gli indici.
Ripeto, nulla di che dopo i record dei mesi scorsi, tuttavia le oscillazioni sono il risultato dei movimenti di denaro simili a onde di marea nei mercati finanziari. Da marzo dello scorso anno, la Fed ha pompato oltre 4 trilioni e continua a fornire denaro attraverso i suoi acquisti di asset al ritmo di 120 miliardi al mese. Non diversamente la Bce.
Questo oceano di denaro si sposta dalle azioni alle obbligazioni, e poi di nuovo al contrario, nella ricerca sempre più disperata di un rendimento adeguato. Potrebbe verificarsi, ne sono certo, più qualche tremore nel prossimo futuro. Le giravolte nei mercati finanziari sono il segno più sicuro che nessuno dei problemi che hanno portato al crollo del mercato di marzo 2020 è stato risolto. In effetti, le ragioni dello schianto non sono state ancora nemmeno completamente comprese.
All’inizio di questa settimana, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato: “Si scopre che il capitalismo è vivo e vegeto. Stiamo facendo seri progressi per assicurarci che funzioni nel modo in cui dovrebbe funzionare: per il bene del popolo americano”.
Queste parole ricordano, almeno a chi scrive, le osservazioni del presidente Herbert Hoover, nell’ottobre 1929, quando dichiarò che “l’attività fondamentale del paese, cioè la produzione e la distribuzione di merci, poggia su una base solida e prospera”.
I presidenti pro-tempore e i capataz della finanza non possono nulla nel lungo periodo a riguardo delle contraddizioni che stanno alla base del modo di produzione capitalistico. La prossima crisi finanziaria è solo questione di tempo, e sarà travolgente. Investimenti, produzione e distribuzione in un’economia mondiale come non mai interconnessa, non possono essere lasciati all’azione casuale della “mano invisibile”. Non più.
I vecchi rapporti, non solo di produzione, ma tutti i rapporti sociali nell’accezione più ampia, soffrono di una crisi senza precedenti; ciò in forza, in prima battuta, dello sviluppo prorompente dei rapporti di produzione degli ultimi decenni; quindi per la stanchezza di un sistema che non può, entro la cornice borghese, superare le contraddizioni proprie e risolvere nessuno dei grandi problemi del presente. Gli antagonismi geopolitici e l’immobilità antistorica della politica ci stanno condannando alle peggiori catastrofi, spingendo gli eventi, umani e naturali insieme, a rompere ogni precedente equilibrio con violenza.
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