Un amico mi ha spedito l’Introduzione di Scienza, quindi democrazia di Gilberto Corbellini, Einaudi 2011. Alcuni stralci:
Di «scienza e democrazia», di «democratizzazione della scienza» o di «scienza per la democrazia» si parla molto oggi. Eppure, vale più che mai quello che più di vent’anni fa scriveva Robert Dahl, cioè che un «termine che significa qualsiasi cosa non significa niente. Ed e diventato così con la parola “democrazia”». Un titolo più didascalico ed esplicativo avrebbe potuto essere «scienza e senso civico». Senso civico è espressione meno impegnativa sul piano filosofico, ma allo stesso tempo fa riferimento a qualita! individuali e a valori sociali, empiricamente valutabili e psicologicamente apprezzabili, che migliorano le pratiche di cittadinanza: definisce la diffusione in una società della capacità individuale di discutere criticamente e far proprie consapevolmente le regole più utili per migliorare la convivenza democratica. La cultura civica democratica implica la tolleranza per le opinioni altrui, la convinzione che solo una divisione bilanciata dei poteri può garantire le libertà personali e il rispetto della legge, l’aspettativa di partecipare a competizioni elettorali libere ed eque per scegliere tra leader politici affidabili e competenti, e una refrattarietà acquisita per le opzioni politiche che promettono cambiamenti e miglioramenti radicali della società.
Ebbene, stante quello che sappiamo su chi siamo, da dove veniamo e cosa possiamo fare, come si può negare un senso a domande quali: perché è così difficile far funzionare in modo efficiente una democrazia? Quale può essere stato il catalizzatore che ha messo in moto i processi economici, sociali e culturali da cui sono scaturiti, negli ultimi due secoli, livelli di maggior benessere, libertà ed eguaglianza che solo le liberaldemocrazie hanno conosciuto? È possibile che a svolgere una funzione attiva di catalizzatore sia stata la scienza? E, nel caso, in che modo potrebbe aver agito?
Quante belle parole sanno cavar fuori gli apologeti del sistema sociale borghese.
Rifletto su questa frase: un «termine che significa qualsiasi cosa non significa niente. Ed è diventato così con la parola “democrazia”». Meglio, dice Corbellini, «scienza e senso civico». Ma anche scienza è un termine equivocabile, osservo, che si presta a molte interpretazioni. Che scienza è quella che mette a punto sistemi di distruzione di massa, dalle bombe nucleari alle armi chimiche e batteriologiche? S’accorda questa scienza con “senso civico”? Che facciamo, lasciamo che siano gli altri ad armarsi e noi, liberaldemocrazie, stiamo a guardare?
Questo esempio e altri che potrei fare comodamente, diventano alla fine stucchevoli. Non è questo il punto. La scienza nelle sue diverse applicazioni è sempre stata al servizio del denaro, degli interessi particolari, della politica degli Stati, eccetera. Spetta poi all’ideologia borghese mettere in mostra il genio dei singoli scienziati, esaltare la funzione della scienza nel suo insieme come benefattrice, ma lo fa per mascherare il reale rapporto di subordinazione che questa intrattiene con il capitale e gli interessi costituiti. Lo vediamo bene da ultimo con la vicenda dei vaccini anti-covid.
Pertanto la scienza con la democrazia c’entra molto poco, e quest’ultima non costituisce il volano fondamentale, “il catalizzatore che ha messo in moto i processi economici, sociali e culturali da cui sono scaturiti, negli ultimi due secoli, livelli di maggior benessere”. Nell’ex Unione Sovietica la scienza era tenuta in grandissima considerazione, anche a livello scolastico; se non fu catalizzatore di benessere economico ciò dipese da altri fattori e non dalla mancanza di democrazia; lezione che la Cina ha recepito, pur non diventando una democrazia in senso proprio.
La democrazia che c’entra? Basta leggere Il popolo dell’abisso di J. London, se proprio non si vuol prendere contatto con La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels. Fu quella la sede classica del capitalismo e gli Stati Uniti quella della democrazia. Che cazzo di democrazia è quella statunitense dove un’oligarchia comanda tutto e 50 milioni di americani sopravvivono grazie al Food Stamp Program?
La democrazia è il miglior involucro per il capitalismo, come ebbe a dire quel tale qualche tempo fa, tuttavia, è il modo di produzione capitalistico stesso, nella sua più genuina espressione, a favorire il progresso, compreso in generale quello scientifico, e ciò allo scopo precipuo di aumentare la produttività del lavoro. Le condizioni politiche in cui ciò avviene hanno sicuramente una certa importanza ma non rappresentano l’aspetto più essenziale.
Questo afflato tra la scienza il capitale non avviene per amore del progresso, ma per la necessità propria del modo di produzione capitalistico di fare profitti, battendo la concorrenza, creando nuovi prodotti e nuovi sbocchi commerciali, vedere l’indice delle proprie azioni schizzare all’insù. La ricerca richiede grandi risorse di denaro, e chi può finanziarla meglio dei gruppi monopolistici?
Si parte dal dover ridurre, attraverso l’innovazione tecnico-scientifica, sempre più la parte viva del lavoro in rapporto a quella oggettivata, ossia ridurre la parte del lavoro necessaria al mantenimento del lavoratore e alla riproduzione della sua classe, che equivale ai salari, in rapporto a quella lavorata a favore del capitalista, che equivale al profitto.
Questa dinamica, espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro, presenta una contraddizione che qui non è il caso d’indagare in dettaglio, ma che si potrebbe esemplificare teoricamente anche con semplici operazioni algebriche, come già fece Marx (malgrado quel che sostiene a tale riguardo quell’asino di Piketty!).
Una contraddizione di non poco conto, che pur segnando nel modello teorico l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, lo sfacelo del modo di produzione capitalistico, invece nella realtà storica, come evidenziava Marx, non coincide con il “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero che il fenomeno è più ricco della legge (v. per esempio le cause antagoniste alla legge sulla caduta del saggio del profitto, che B. Croce si dimenticò di leggere nel vergare la sua “critica”).
Pertanto, messe da parte le fole sul “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo (con buona pace di H. Grossmann e C.), bisogna riconoscere che questo modo di produzione, pur in secoli di sfruttamento punteggiati di barbarie, ha portato l’economia su livelli storicamente inediti, con un diffuso benessere toccato soprattutto in Occidente negli ultimi 50anni. Ciononostante il capitalismo soffre di una crisi storica irreversibile, che le pratiche riformistiche non possono risolvere in radice, poiché il motivo fondamentale della crisi, che trascina con sé tutto il resto, va cercato nel modo stesso di produrre profitto e di accumulare capitale.
Pertanto, in qualunque modo si voglia coniugare “scienza e democrazia”, “scienza e senso civico”, e simili frasette, buone per i fruitori del pensiero ingenuo e della critica laterale, ciò che resta fondamentale è il binomio scienza ed economia, il rapporto tra queste due sfere, la subordinazione sostanziale della prima alla seconda. In tal senso, la scienza, al servizio dell’economia (e della politica che ne favorisce gli interessi e ne copre le magagne), non potrà mai offrire risposte convincenti sui temi del cambiamento climatico, della distruzione della natura, la dissipazione delle risorse, e sul tema più generale delle alternative. Al massimo la “scienza” e la politica possono levare il loro grido d’allarme su quei temi, innovare certi processi produttivi, proporre delle soluzioni di carattere settoriale e di emergenza, degli escamotage temporanei, ma non possono mettere in discussione il fondamento economico stesso della nostra società e i relativi rapporti sociali. Da questo cul-de-sac si esce solo rompendo il sacco.
Per restare "dentro" la metafora del "cul-de-sac": riformista è colui che pretende di uscire dalla parte del "sacco" in cui è entrato.
RispondiEliminabeh su una cosa non ha proprio tutti i torti:
RispondiElimina'[...] fa riferimento a qualita! individuali e a valori sociali, empiricamente valutabili e psicologicamente apprezzabili'
c'e' un sacco di gente ignobile e altrettanta che si fa prendere in giro.
Che poi il Sig. Corbellini, quando parla di valori , si riferisca a quelli che si mettono in banca ...
...ma sto diventando acido, il venerdi sera oramai sono allo stremo: odio il mondo delle corporate !