In Cina oggi si celebrano i 100 anni della fondazione del Partito comunista cinese. In realtà la data esatta sarebbe il 23 luglio, quando il congresso di fondazione del Partito Comunista Cinese si aprì in un dormitorio di una scuola femminile, nella Concessione Francese di Shanghai, spostandosi poi in una casa privata.
La dirigenza cinese ha buon motivo di celebrare con fasto l’anniversario. Chi avrebbe immaginato, non nel 1921, ma anche 50 anni dopo, che la Cina sarebbe diventata il gigante economico mondiale che è oggi? Non v’è dubbio sul ruolo storico del PCC, nei decenni che sono seguiti alla sua fondazione, nel porre fine all’umiliante subordinazione della Cina nei secoli XIX e XX alle potenze imperialiste e nella costruzione della nazione cinese.
I cinema sono tenuti a proiettare, due volte la settimana, film che glorificano il PCC, e le sale mettono in scena le cosiddette opere rivoluzionarie. Ottanta nuovi slogan, come “Segui il partito per sempre” e “Nessuna forza può fermare la marcia del popolo cinese”, sono presenti ovunque. Agli scolari è richiesto di scrivere saggi sul “sogno cinese” di Xi per trasformare la Cina in una grande potenza sulla scena internazionale. Eccetera.
L’altra faccia della Cina è data dal Reporting Center for Illegal and Unhealthy Information, una divisione dell’apparato di polizia di Internet della Cina, che ha aggiunto un nuovo livello alla sua già ampia censura annunciando una nuova struttura per combattere il “nichilismo storico” (sic!). I cittadini sono incoraggiati a segnalare post online che possano distorcere la storia del PCC rispetto alla litania ufficiale, attaccare la sua leadership o “calunniare eroici martiri”.
La dirigenza cinese ha buoni motivi per preoccuparsi, posto il diffuso disgusto per la burocrazia corrotta del partito, che rappresenta apertamente gli interessi degli strati più ricchi e benestanti della popolazione. La celebrazione ufficiale è costruita sulla menzogna, anzitutto quella che vuole il partito fedele ai suoi principi fondanti. In realtà il partito ha rinunciato molto tempo fa al programma su cui era stato fondato, e “il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi” non ha nulla a che vedere con quel programma.
Storicamente la svolta cinese partì da più lontano, dal 1911, quando Sun Yat-sen, che aveva fondato il Kuomintang (partito nazionalista borghese), divenne presidente provvisorio di una Repubblica cinese, ma non riuscì a unificare il paese e a porre fine all’ingerenza straniera. Poi, all’indomani della prima guerra mondiale, le maggiori potenze vittoriose alla conferenza di pace di Versailles accolsero le rivendicazioni del Giappone sulla provincia di Shandong, già appartenuta alla Germania.
Quando la decisione divenne pubblica, provocò vaste proteste e scioperi nel maggio 1919. Quello che divenne noto come il movimento del 4 maggio nacque da un sentimento antimperialista e portò a un fermento intellettuale e politico molto più ampio, in cui Chen Duxiu e il suo stretto collaboratore Li Dazhao interpretarono ruoli da protagonisti.
Chen fu cofondatore del Partito Comunista Cinese nel 1921, divenendone anche primo presidente e segretario generale (1921-1927). Filosofo e professore universitario, teorizzò che la Cina si sarebbe potuta ammodernare solo se avesse abbandonato l’antica ideologia confuciana, ormai inadatta ad interpretare la società contemporanea. Tutto l’opposto di quanto viene teorizzato ora in Cina.
L’obiettivo del PCC negli anni Venti, sulla scorta della rivoluzione Russa, fu la rivoluzione socialista mondiale, tutt’altro con la concezione nazionalista reazionaria del “ringiovanimento della nazione cinese”, che è l’elemento centrale del “sogno” di Xi.
Il PCC non è un partito del “popolo”, tantomeno del proletariato cinese, ma il partito-Stato dell’apparato burocratico che governa la Cina. Anche secondo le sue stesse cifre ufficiali, i lavoratori rappresentano solo il 7% dei membri del partito, che è dominato in modo schiacciante da funzionari statali e comprende alcuni dei più ricchi miliardari della Cina.
In Cina, come in qualsiasi paese capitalista, il profitto privato e il mercato dominano ogni aspetto della vita. L’affermazione che la Cina, con le sue società multinazionali private, i ricchi miliardari, rappresenti un “socialismo con caratteristiche cinesi”, è una farsa. Il “sogno” di Xi di una potente nazione cinese non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo.
L’obiettivo del Partito sedicente comunista cinese è quello di aumentare il proprio rilievo nell’ordine capitalista mondiale. Obiettivo che si scontra inevitabilmente con il posto occupato e il ruolo giocato dall’altro gigante capitalista. Un confronto che non potrà evolvere a lungo in maniera pacifica.
Sorprendenti analogie con il Partito Democratico. Americano? Anche.
RispondiEliminati dirò che un paragone del genere era venuto anche a me, ma il confronto non regge: i cinesi sono comunque di un'altra levatura rispetto ai nostrani (non solo Pd).
EliminaIl commento mi è venuto irresistibilmente quando ho letto "i lavoratori rappresentano solo il 7% dei membri del partito, che è dominato in modo schiacciante da funzionari statali e comprende alcuni dei più ricchi miliardari della Cina."
EliminaAnche perché la dicotomia lavoratori - statali stavolta è tua.
lo sapevi che ho conseguito un master di II livello in dicotomia?
EliminaComplimenti. Il mio è in consociativismo.
EliminaInteressante punto di vista
RispondiEliminae per concludere , come dicono in 八佰:
RispondiEliminaun giorno la nostra bandiera sventolerà sul monte Fuji