Il 25 luglio 1943, per molti segnò una cesura, uno spartiacque, ma per altri il ravvedimento tardò a maturare.
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Il trasformismo politico non è solo una caratteristica italiana (Giuseppe Giusti dedicò Il Brindisi di Girella a Talleyrand), e però nello Stivale nei secoli ha trovato l’humus per stupefacenti fioriture (“Franza o Spagna, purché se magna”), specie nel secondo dopoguerra per opera dei tanti che col regime intrallazzarono cospicuamente e poi fecero il salto della quaglia effigiandosi genuini antifascisti. Una parodia può essere quella interpretata da Totò ne I tartassati, che nell’arco di solo dieci secondi si proclamava dapprima nostalgico della “buonanima” e subito dopo, vista la mal parata, verace antifascista.
Più di un elenco è stato stilato a riguardo di questi dietrofront di cui si resero attori i più chiari intellettuali dell’ex regime littorio. L’iter labirintico seguito da molti di essi, poi approdati nelle file dell’antifascismo, è ormai patrimonio comune della storiografia più accreditata. Uno degli esempi forse meno noti e però paradigmatici, nell’oceano di microstorie che ruotano intorno a quello scorcio di tempo, fu il trasformismo, o camaleontismo, impersonato da Eugenio Garin, storico della filosofia e del Rinascimento, il quale non fu un antifascista della prima ora e anzi ebbe trascorsi problematici ben oltre il 25 luglio, vale a dire anche nel periodo della Repubblica Sociale.
Nel 1931, s’iscrisse al PNF (Per Necessità Famigliari, fu il sarcastico acronimo all’epoca). E fin qui, transeat. Amico di Papini, Garin di Giovanni Gentile divenne collaboratore editoriale e portapenne, ed infine tenne nell’aprile 1944 il discorso commemorativo in memoria del filosofo. In quei mesi dell’occupazione nazi-fascista accettò di “partecipare a manifestazioni culturali di chiara impronta fascista”, come quelle organizzate dalla nota Jolanda de Blasi, restando contiguo ad ambienti cattofascisti.
Dopo “gli avvenimenti di aprile”, dunque dopo l’insurrezione partigiana del 25 aprile, Garin ebbe un repentino e disinvolto ripensamento a riguardo di molte cose, non ultimo il fascismo. Perlomeno a livello pubblico. Significativo in tal senso l’articolo che scrisse, già nel settembre 1945, per il Corriere di Firenze, divenuto da poco Corriere Alleato col patrocinio diretto del Psychological Warfare Branch. Titolo: La questione morale. Vi si legge, tra l’altro:
«Fascismo era, non già una discutibile teoria politica, ma il malcostume eretto a sistema e la organizzazione programmata di quanto peggiore i secoli più tristi della storia d’Italia abbiano lasciato in eredità nel carattere italiano: proprio per questo epurare dal fascismo sarà compito arduo».
Bel voltafaccia da parte di un ex chierico di quel regime.
Agli inizi del 1945, Firenze liberata dai partigiani nell’agosto precedente, Garin militò sotto la bandiera del Partito liberale Italiano, ne divenne poi per breve tempo esponente. Passò al partito repubblicano, e nel 1946 fu tra i firmatari del Manifesto agli italiani del movimento della democrazia repubblicana di Ferruccio Parri e Ugo La Malfa, che a Firenze vide l’adesione di numerosi e importanti antifascisti. Nel frattempo – scrive Luciano Mecacci nel suo La Ghirlanda fiorentina, da cui ricavo utili notizie –, “pur muovendosi politicamente nell’area laica, tra liberali repubblicani, Garin mantenne saldo il suo afflato religioso, collaborando con riviste di spiccata ispirazione cattolica”. Infine, la scoperta di Gramsci lo redense e gli cambiò la vita. Approdò, manco a dirlo, al Partito comunista italiano, trovando in Roderigo di Castiglia un suo grande estimatore.
Normale. Gli intellettuali hanno sempre cercato un padrone. La vera domanda è:perché il PCI fu così accogliente?
RispondiEliminaForse aiuta l'analogia di Von Braun negli Stati Uniti.
un generale e interessato nicodemismo.
Eliminaperché? la risposta è già in Gramsci: egemonia culturale.
No, a Braun bastava costruire e lanciare razzi, su Londra o per la Luna, ovunque.