La Guerra Fredda, durata più di quattro decenni, si è conclusa offrendo agli Stati Uniti condizioni che difficilmente avrebbero potuto essere più favorevoli. Senza rivali, forti di un’impareggiabile potenza, ma la bussola che aveva guidato la loro politica estera non era più idonea a guidarne l’azione nelle nuove circostanze. Per tre decenni sono andati incontro a sempre maggiori difficoltà sia sul fronte internazionale così come al loro interno, registrando un progressivo declino.
La frustrazione per la percezione della inutilità degli interventi militari all’estero è stata rafforzata dalle tendenze interne, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, quando i salari della classe media ristagnavano o crollavano e le perdite di posti di lavoro e le chiusure di fabbriche creavano una crescente ostilità verso il sistema. E tutto ciò nonostante gli aumenti di produttività legati all’innovazione tecnologica, che però è stata, con la delocalizzazione manifatturiera, la principale responsabile del taglio di posti di lavoro.
Infine gli anni di Obama, che hanno segnalato incertezza sulle intenzioni, soprattutto in politica estera, e tiepide riforme interne, anche se taluni ampi settori dell’opinione pubblica, allevata e coltivata da una certa propaganda, considerò tali riforme come un affronto di stampo “socialista”. Nel complesso, c’era una diffusa sensazione che l’establishment avesse fallito, sia trascurando di proteggere i lavoratori americani, sia intraprendendo una politica estera troppo ambiziosa, distaccata dagli interessi vitali del paese e dal benessere dei suoi cittadini.
Questo grossomodo il quadro che ha dato nel 2016 la vittoria a Trump.
Pertanto, guardando le cose in prospettiva storica, non è realistico addossare ogni responsabilità dello stato attuale a Trump, il quale, per l’appunto, è stato eletto sulla scorta di un programma che può essere così riassunto: gli Stati Uniti stavano facendo troppo all’estero e in patria stavano peggio per questo motivo. Semplicistico, ma non si può dire che Trump, a modo suo e almeno nelle intenzioni, non abbia mantenuto fede nei suoi tre anni e mezzo alla Casa Bianca al principio “prima l’America” (*).
Manca da questa visione del mondo qualsiasi apprezzamento di ciò che, dal punto di vista degli Stati Uniti, è stato notevole nei precedenti tre quarti di secolo: la supremazia globale pressoché incontrastata degli Usa. Sotto ogni aspetto essi hanno imposto o cercato d’imporre al mondo intero il proprio modello economico-sociale e, per tale tramite, la loro ideologia e ovviamente e primariamente i loro interessi.
Sul piano dello scontro ideologico ciò fu reso più agevole, salvo la parentesi della guerra in Vietnam e della contestazione a cavallo degli anni 1960-1970, dalla situazione in atto nei regimi cosiddetti comunisti, rivendicando che libertà e democrazia non sarebbero state possibili senza la leadership degli Stati Uniti. Il che, entro certi limiti, non è stato privo di fondamento.
Seguendo l’elementare didattica di Trump, un minore impegno degli Usa all’estero porterebbe a fare più cose giuste e buone a casa. La sua è una comprensione ristretta in che cosa consistono e come dovrebbero essere perseguiti gli interessi americani, ossessionato dai saldi commerciali bilaterali, dall’aumento delle esportazioni e dalla diminuzione delle importazioni come se governasse l’Argentina, trascurando altri obiettivi della politica statunitense, e sfide comuni come le migrazioni, i cambiamenti climatici e le malattie infettive, le quali richiedono un approccio multilaterale e risorse comuni (non lo fa molto neanche la UE, per la verità).
Trump si è ritirato o minaccia di farlo da molti impegni multilaterali: il Trans-Pacific Partnership (TPP), l’accordo sul clima di Parigi, l’accordo sul nucleare iraniano, il Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio, dall’UNESCO, dall’Organizzazione mondiale della sanità, dal Trattato sui cieli aperti, ed ha anche rifiutato di aderire a un patto sulla migrazione globale o con l’Europa per un vaccino per il covid.
Inoltre è ancora tutto da dimostrare che i mali interni degli Usa siano da attribuire in gran parte ai costi della politica estera, e non invece ai caratteri peculiari sui quali è stato costruito il modello sociale americano, tenendo anche conto del fatto che la quota di spesa per la sicurezza nazionale è diminuita negli ultimi decenni ed è inferiore a quello che era durante la Guerra Fredda.
Resta comunque il fatto che le spese militari rappresentano ancora circa il 38% della spesa militare globale. Trump, di là dei proclami di disimpegno in Europa e in altre aree, invece di tagliare questa spesa, l’ha aumentata e non di poco (*). Segno questo che certi interessi sono infine prevalenti e determinano l’atteggiamento delle amministrazioni in politica estera.
Se si considerano le guerre come quella del Vietnam, dell’Afganistan e dell’Iraq (pur combattuta per il petrolio) i costi umani ed economici ha sminuito qualsiasi vantaggio. Errori di strategia che poi si pagano a lungo, che però hanno fatto la fortuna dell’apparato militare e industriale (**). Tuttavia, fatta la tara per questi errori, l’egemonia del dollaro, basata sulla potenza economica e militare, ha consentito e ancora permette agli Usa di trarne immensi vantaggi di posizione.
Posizione che può essere mantenuta solo con un confronto sempre più serrato con la Cina. Trump ha cercato di dare un’altra direzione alle cose, ma non ha saputo offrire una valida strategia alternativa a quelle del passato. Chiunque siederà nella stanza ovale dal prossimo gennaio, sa che tale questione è cruciale. Ci vorranno volontà e capacità negoziali per non arrivare “alle mani”.
In tale chiave, gli Usa sembrano aver dimenticato una lezione della storia, e cioè il ruolo giocato della Russia in simili frangenti: se la Russia non può essere amica, non necessariamente deve essere nemica. Insidiarla ai propri confini non paga. Pare non si voglia capire a Washington, non solo in questo momento, che in politica estera i buoni rapporti dipendono dal trattare la sicurezza degli altri seriamente quanto la propria.
Quanto all’avvelenamento di certi personaggi, per rimanere sui clamori recenti, le congetture lasciano il tempo che trovano. È comico sentire la Merkel chiedere a Putin un’indagine “seria”. Tuttavia, come in ogni romanzo giallo che si rispetti, l’avvelenatore può essere qualunque insospettato che ne avesse interesse. Anche il fedele maggiordomo.
(*) La spesa militare relativa (cioè in proporzione al Pil) degli Stati Uniti è diminuita fortemente nel corso del dopoguerra. L’inarrestabile tendenza alla diminuzione della spesa dopo la guerra di Corea ha ridotto la spesa militare relativa del 68%, dal picco del 14.73% del 1953 al 4.73% del 2005. In quel cinquantennio gli unici periodi di risalita temporanea della spesa militare in relazione al Pil si sono avuti durante l’era del Vietnam, la fase finale della guerra fredda (Reagan) e il periodo successivo aperto dall’11 settembre 2001. Nel 2019 sono stati stanziati 732 miliardi di dollari per la Difesa, fra il 3% ed il 4% del Pil. Tale cifra è in aumento del 5,3% rispetto al 2018. Tuttavia oscilla nella media degli ultimi lustri.
(**) Reagan poteva scrivere nelle sue memorie a riguardo della politica monetaria statunitense: «Il grandioso successo dinamico del capitalismo ci ha fornito una potente arma nella battaglia contro il comunismo: il denaro. I russi non potrebbero mai vincere la corsa agli armamenti, mentre noi possiamo sperperare all’infinito».
"...libertà e democrazia non sarebbero state possibili senza la leadership degli Stati Uniti. Il che, entro certi limiti, non è stato privo di fondamento." "Entro certi limiti" questa è un'apologia della democrazia imperialista, che dimostra quale sia l'effettivo orientamento politico-ideologico che caratterizza questo sito: trozkista e, 'off course', anticomunista.
RispondiElimina"...libertà e democrazia non sarebbero state possibili senza la leadership degli Stati Uniti. Il che, entro certi limiti, non è stato privo di fondamento."Entro certi limiti" questa è una volgare apologia della democrazia imperialista, che dimostra quale sia l'effettivo orientamento politico-ideologico di questo sito: trozkisteggiante e, 'off course', anticomunista.
RispondiEliminabisogna vedere cosa s'intende per "comunista".
Eliminama più comodo procedere per sentenze e slogan che per argomentazioni.
sì, un sito anticomunista e finanziato dalla CIA e dalla quarta internazionale. statene alla larga