Massimo Cacciari, a riguardo del cosiddetto “salario
di cittadinanza”, sostiene che:
«Il capitalismo funziona a riduzione del tempo di
lavoro necessario. Il lavoro necessario si va riducendo. Quelli che non
producono ricchezza in una forma o nell’altra, vanno eliminati, licenziati, e
poi assistiti? No. Vivono, e devono vivere decentemente. C’è un problema che è
molto di più che distributivo. Non siamo più nell’epoca dell’etica del lavoro.»
In questo ragionamento si colgono delle verità (a
mezzo), delle reticenze e delle contraddizioni. In tutti questi bei discorsi si
tace un fatto essenziale, ossia le condizioni
sociali nelle quali avviene il lavoro. Si tace, ad esempio, il fatto che
questa è, al pari delle precedenti, una società di classe in cui prevalgono le pretese
delle diverse specie di proprietà privata, poiché le diverse specie di
proprietà privata sono le basi della società. Se non si parte da questo presupposto si fanno solo chiacchiere sul
lavoro e sulla società.
Accenno semplicemente al fatto che s’è vero che il capitalismo
funziona a riduzione del tempo di lavoro necessario, ciò implica che la
riduzione del lavoro vivo in rapporto al capitale costante si traduce in una
progressiva caduta del saggio profitto. Questo fatto, incontrovertibile quanto
un assioma archimedeo, è di fondamentale
importanza e comporta considerevoli conseguenze. Per contro, monopolio,
nuovi prodotti e aperture di mercati non sono più sufficienti quali efficaci
antagonisti di tale tendenza.
Altra contraddizione che traspare dal dettato cacciariano
riguarda il dover offrire ai senza lavoro dei mezzi per “una vita decente”, che
però non deve essere intesa, sostiene il prof, come mera assistenza. E questo è
già un bel problema. In che cosa consistano concretamente i mezzi per condurre
“una vita decente”? E che ciò non si sposi con l’assistenza è ben difficile
dimostrarlo. Né va taciuto, tutt’altro, il fatto che il debito pubblico di
tutti i paesi anziché ridursi continua ad aumentare e alla prossima bolla
finanziaria potrebbe saltare qualcosa di più grosso di qualche conglomerato bancario,
ma tutto il sistema Ponzi.
Inoltre, quando dei membri della società non lavorano
essi stessi, vuol dire che vivono del lavoro altrui. Si tratta, a ben vedere,
della posizione che hanno assunto in ogni tempo i difensori del regime sociale
esistente. In questo caso l’ineguale diritto verrebbe esteso anche al
proletariato senza lavoro. Senza contare che, allorché la questione assommasse
a grandi numeri così com’è inevitabile, sorgerebbe una bella discrasia tra chi
magari è costretto a lavorare e chi invece senza lavoro potrà condurre “una
vita decente”.
Noi assistiamo comunemente ad un fatto che sta
sconvolgendo le nostre vite, le nostre ex consolidate certezze, e cioè che nella
misura in cui il lavoro si sviluppa socialmente e in questo modo diviene fonte
di ricchezza e di civiltà, si sviluppano povertà e indigenza dal lato dei
lavoratori, ricchezza e civiltà dal lato dei padroni del mondo. Ci fanno credere
che a tutto ciò si possa mettere rimedio con delle pezze a colore. La storia
non funziona così.
Qual è dunque il modello di società cui si punta? Non
possono dircelo chiaro, anche se lo sanno benissimo. Una società dove una
classe di schiavi produce “il necessario”, nell’ambito della subordinazione
servile degli individui alla divisione del lavoro; viene poi un’enorme massa di
plebei mantenuta al minimo di sussistenza con sussidi pubblici e da forme di evergetismo;
tutto ciò sotto il dominio di fatto di un’elite di plutocrati e tecnocrati, gli
uni sempre più ricchi e gli altri sempre più assolutisti e arroganti.
Questo tipo di articolazione sociale, mutatis
mutandis, è già esistito in epoca antica e non era certo un modello di
democrazia cui possiamo dire d’ispirarci ancor oggi, poiché sappiamo bene a
quali forme di dispotismo politico esso conduce inevitabilmente.
Nella odierna società capitalistica si sono
finalmente costituite le condizioni materiali e sociali che abilitano e
obbligano il proletariato a spezzare la maledizione del lavoro salariato.
Pertanto, se da un lato è necessario ridurre la
giornata lavorativa normale e la settimana lavorativa, per dar modo di lavorare a tutti, dall’altro lato ciò non è ancora sufficiente. Poiché deve entrare in
discussione non solo una nuova distribuzione del lavoro, ma devono mutare le
condizioni materiali e giuridiche stesse in cui avviene il lavoro.
Lavoro non
significa solo salario, mezzi di sussistenza, sopravvivenza. Cresciute le forze produttive e tutte le sorgenti
delle ricchezze sociali, è possibile superare l'angusto orizzonte giuridico
borghese, di modo che nelle mutate
condizioni, il lavoro non sia soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita.
energetismo? che significa? grazie
RispondiEliminaHomo faber è il nostro orizzonte e non certo Homo alienato
quando ho letto il commento m'è venuto un colpo.
Eliminasto cazzo di correttore automatico ne combina di ogni colore.
evergetismo e non energetismo, termine che peraltro ho usato anche in altre occasioni.
quando rileggo poi devo prestare più attenzione. la settimana scorsa avevo invece fatto uno strafalcione con un verbo e in tal caso il correttore non c'entrava.
grazie.
A margine di un post magistrale come il presente, si fatica ad aggiungere qualcosa. Ma ci provo: nella società capitalistica, il lavoro è una merce con sempre meno valore. Ma il problema rivoluzionario non è valorizzare il lavoro, bensì fare in modo che il lavoro cessi di essere merce.
RispondiEliminasempre generosissimo nei tuoi giudizi.
Eliminanon per correggerti, mio caro, ma il lavoro produce sempre più valore, nel senso che la sua produttività è assai aumentata. ciò che diminuisce è il suo prezzo d'acquisto.
aumentando la composizione organica, la partecipazione dei dominati alla pratica democratica borghese viene privata di qualsiasi efficacia e senso, senza qui considerare le ambiguità laceranti che questa partecipazione ha, via via scorrendo il tempo, generato. Vedi la parabola del PCI ad esempio, che se non ci fosse da piangere sarebbe da ridere.
RispondiEliminaMi unisco all'apprezzamento di questo post...però anche io pensavo che cadendo il famoso saggio di profitto il valore assoluto del lavoro umano diminuisse...
RispondiEliminaRoberto
credo che "prezzo" sia più esatto, ciao
EliminaIL REDDITO DI CITTADINANZA È UNA COSA SERIA.
RispondiEliminaSe ne fa un gran parlare, soprattutto da parte degli “intellettuali”(vedi articolo di B. Vecchi sul Manifesto di oggi: https://ilmanifesto.it/le-applicazioni-killer-degli-algoritmi/). Vuol dire che Finanzieri e Industriali sono preoccupati.
La spiegazione è Molto Semplice: tutto dipende da chi Possiede e Gestisce i Mezzi di Produzione.
Se è la Borghesia, sarà semplicemente un Reddito di Base per garantire l’ordine sociale, la sudditanza dei lavoratori, il consumo dei beni prodotti. Produci, Consuma, Crepa.
Insomma, il modello sociale evocato da Corbyn: «La Gran Bretagna è la sesta più ricca economia mondiale. Il popolo britannico deve poterla condividere».
Se invece sono i lavoratori a Gestire e Produrre, sarà un Vero Reddito di Cittadinanza: “In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
K. Marx, Critica del programma di Gotha