La categoria dei giornalisti, in tema di previdenza,
è tra le più privilegiate. Dopo i politici e i magistrati, naturalmente. Rispetto
alle vittime della Monti-Fornero i giornalisti possono vantare, a tutt’oggi, un
tasso di sostituzione che consente di percepire, a parità di contributi, il 33
per cento in più di assegno pensionistico rispetto ai comuni mortali. Non è poca cosa, anzi è la sostanza
stessa della riforma Monti-Fornero, poiché con tale riforma al lavoratore
normale il coefficiente di trasformazione, che moltiplica il montante finale
per determinare la pensione, viene rivisto al
ribasso ogni tre anni, per riflettere l’aumento della vita media attesa. Non
così per i giornalisti.
Inoltre, a un lavoratore normale si applica un tetto
massimo di base imponibile: il reddito oltre i 100 mila euro non contribuisce
ad accumulare la pensione. Non così per i giornalisti, i quali peraltro possono
accedere alla pensione con 57 anni di età e 35 anni di contributi, oppure con
40 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica. Mario Giordano,
tanto per citare, di queste cose non scrive e quando Marco Travaglio parla
delle “nostre pensioni” non si riferisce al trattamento riservato ai comuni
mortali.
Nulla vieta che poi il giornalista possa dedicarsi
alla libera professione, scrivere libri e farsi i casi suoi. A tale riguardo, a
suo tempo, la Corte dei Conti, proprio a riferimento dei bilanci dell’INPGI ha
rilevato la “propensione al pensionamento volontario anticipato”. Qualcosa
dovrebbe cambiare anche per questa categoria, ma solo a far data dal 2019.
Avranno dunque tutto il tempo di decidere che cosa fare da grandi. Ai comuni
mortali, invece, con la Monti-Fornero le cose, come si ricorderà, sono cambiate
dalla sera alla mattina.
Tutto ciò è bene premettere poiché personalmente non
credo alla buona fede di chi intossica l’informazione in materia previdenziale.
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