Giorni addietro ascoltavo Federico Rampini (quel tipo
che porta le bretelle alla Truman Capote senza averne lo charme) dichiarare che
chi dice che la globalizzazione è irreversibile sostiene una sciocchezza.
Da ciò che dice e scrive Rampini, si deduce che egli è
convinto che descrivere un fenomeno equivalga ad analizzarlo nelle sue cause
immanenti. Egli crede, a pari dei suoi sodali, che il capitalismo sia
rappresentato essenzialmente dal “mercato”. E, peggio ancora, che a questo "mercato" si possano dettare delle regole!
Il mercato rappresenta solo un lato del capitalismo, la sfera della circolazione del
capitale e delle merci, ma nel suo insieme e nella sua essenza il modo di produzione capitalistico è processo
di valorizzazione del capitale stesso.
Il processo di valorizzazione del capitale procede in
modo assolutamente indipendente dalla volontà sia dei singoli soggetti e sia
del collettivo umano. Alla sua base vi sono leggi che agiscono con la stessa forza delle leggi di natura.
Questo è un concetto essenziale, prescindendo dal quale si brancola nell’oscurità delle cause che muovono la società borghese e le sue inesauribili contraddizioni, a cominciare dalla crescita e polarizzazione della ricchezza, rivoluzioni tecnologiche e disoccupazione, eccetera.
Questo è un concetto essenziale, prescindendo dal quale si brancola nell’oscurità delle cause che muovono la società borghese e le sue inesauribili contraddizioni, a cominciare dalla crescita e polarizzazione della ricchezza, rivoluzioni tecnologiche e disoccupazione, eccetera.
Quella chiamata globalizzazione, non è un fenomeno
nuovo. Vero è che negli ultimi due
secoli il processo di concentrazione, centralizzzazione e
internazionalizzazione del capitale ha subito un’accelerazione sempre maggiore.
Costante è l’incentivo – indotto dalle
necessità della valorizzazione – all’innovazione tecnologica e di
conseguenza la produttività del lavoro raggiunge gradi sempre più elevati. È
però altrettanto vero che questo processo storico è iniziato non meno di cinque secoli or sono con l’espansione
europea e lo sfruttamento dei giacimenti di forza-lavoro e materie prime più
remoti.
Per farsene una prima ragione è sufficiente leggere un pamphlet scritto 170 anni or sono, la cui freschezza resta tale che Rampini potrebbe in gran parte ricopiarlo e spacciarlo come propria elaborazione. Sotto il suo nome ne venderebbe milioni di copie senza bisogno di violare diritti d’autore e copyright.
Tutto è stato o verrà, presto o tardi, raggiunto da
questo fenomeno storico. Tutto è messo a valore e profitto da parte di una
dinamica economica che non conosce limiti e confini, poiché il capitalismo non
è tarato sui bisogni umani (non per questi nobili propositi investe il
capitalista) ma sulle esigenze pressoché infinite e puramente quantitative del processo di valorizzazione del capitale.
Per dirla in termini comprensibili a tutti: il capitale è obbligato a creare più capitale, pena l’arresto del sistema, con
tutti gli effetti contraddittori che sono alla base delle fortune di economisti,
scrittori e giornalisti alla Rampini.
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