Nei prossimi decenni la popolazione mondiale aumenterà di due miliardi, ma per l’Europa e gli Usa sarà già tanto se riusciranno a mantenere l’attuale livello demografico. In termini economici e geopolitici questo fatto dimostra come la Cina, l’India e il Brasile, verranno a giocare un ruolo sempre più importante sulla scena internazionale e nella leadership mondiale e nella lotta per lo sfruttamento e il controllo delle risorse.
Ma quanto conta il fattore demografico? L’espansione dell’Europa nei secoli XV-XVI assunse dapprima le forme del colonialismo e poi quelle dell’imperialismo pur essendo il nostro continente assai minoritario in termini demografici. Tuttavia l’Europa ha potuto dominare gran parte del mondo in forza della propria tecnologia, del capitale e di una cultura più efficiente. Gli Stati Uniti, soprattutto dalla seconda metà nel XX secolo, sono diventati la nuova potenza dominante pur rappresentando anch’essi una minoranza in termini demografici. Questo non dovrebbe dimostrare come il fattore demografico, pur rilevante, da solo non sia sufficiente a spiegare e determinare la leadership di un paese in un’area, in un emisfero o globalmente?
Si sostiene che la lunga fase nella quale ha dominato l’imperialismo americano e nord atlantico tende al declino e se n’è sia aperta una nuova, quella del multipolarismo. È questo un fatto oggettivo, ma va detto che la forza dell’Occidente resta, in termini economici e tecnologici, ancora preminente (*). C’è da chiedersi tuttavia se e quanto potrà durare tale supremazia e a cosa si andrà incontro se gli Usa e l’Europa vedranno ridursi considerevolmente il loro ruolo a livello mondiale.
Si è aperta una fase nella quale il confronto non è più tra due o tre blocchi ma tra una pluralità di potenze e interessi in ogni scacchiere geografico. Però non va trascurata la lettura di un dato che dovrebbe portarci a considerazioni diverse: 147 gruppi societari controllano il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta. Quanto adeguata è ancora l’interpretazione secondo i classici schemi della geopolitica dello scontro tra potenze per l’egemonia?
Non si tratta, come nella seconda metà nel XX secolo, di un confronto-scontro tra sistemi economici e sociali diversi e antagonisti. Nonostante la Cina sostenga di sperimentare l’ibridazione tra “socialismo” e capitalismo, domina un’unica forma di pensiero e di economia, una situazione nella quale i capitali e le merci transitano da un capo all’altro del pianeta senza vincoli e barriere. E anche sul piano della competizione militare, al momento, il confronto tra potenze è giocato più sottotraccia rispetto all’epoca dei blocchi.
Decisiva quindi sembra la sfida economica poiché si è venuta affermando in concreto e su scala mondiale la potestà esclusiva del capitalismo nella versione storicamente più cristallina, dove tutto è valore di scambio e domina l’imperativo del profitto, il gelido calcolo economico e la lotta per il predominio “efficiente”. Questa situazione sarà sufficiente a garantire la pace oppure è già la premessa di uno scontro sempre più aperto per il controllo delle risorse e dei transiti? I precedenti storici non sono tranquillizzanti.
È fatto notare che il modo di produzione capitalistico nel momento della sua massima espansione e di trionfo è entrato in una crisi generale dalla quale sembra non poter uscire per le consuete vie. E tale situazione è aggravata dalla stupefacente finanziarizzazione dell’economia, laddove i valori cartacei superano annualmente di tre o quattro volte quelli reali. Non era già in crisi questo sistema economico ben prima degli eventi recentissimi (**) ?
In effetti, è ben noto, come la gravissima crisi degli anni Trenta fu risolta con il più grande conflitto armato della storia (70mln di morti), cui seguì il ciclo espansivo della ricostruzione e l’impulso straordinario delle nuove produzioni di massa (mezzi di trasporto, elettrodomestici, sviluppo dell’agro-alimentare, tessile e nuovi armamenti) che richiesero l’impiego di enormi capitali, anche statali per la realizzazione di gigantesche infrastrutture, l’inurbamento di masse proletarie di dimensioni inedite, e non ultimo la creazione di un mercato finanziario mondiale fondato sul dollaro e la sua convertibilità (almeno fino al 1971).
Ciò consentì la ripresa e l’espansione del processo di accumulazione favorito anche dai bassi costi delle materie prime e, per contro, dall’alto livello di povertà delle popolazioni dei paesi fornitori, fatte salve alcune eccezioni. Di questo stato di cose si avvantaggiavano non solo i capitalisti e la borghesia rentier, ma anche la forza-lavoro dei paesi dell’occidente industrializzato (e altri come il Giappone), consentendo la formazione di un’aristocrazia operaia e l’allargamento dei ceti medi. Già dagli anni Trenta, in opposizione alla crisi, si venne all’impiego del debito pubblico per la creazione di un welfare efficiente, il sostegno dei consumi e come volano degli investimenti. Cose molto note e meglio descritte e articolate da una pubblicistica copiosa.
La situazione comincia a mutare già con gli anni Sessanta, il rallentamento della crescita, la stagnazione e l’aumento delle materie prime, lo scontro sociale per il riconoscimento dei diritti e di migliori condizioni. Questo fino agli anni Ottanta, quando si andò affermando una vecchia idea dell’economia, già fallita in passato ma fatta passare per nuova: la mano invisibile del mercato che punta all’equilibrio. Questi sono fatti noti e ancora all’ordine del giorno.
Con la caduta della cortina di ferro e poi con gli accordi del WTO, con la decisione della leadership cinese di intraprendere la via del capitalismo di mercato, il processo neoliberista assume un’accelerazione. Senza entrare nel dettaglio di fatti arcinoti, si sta assistendo alla più imponente rivoluzione della struttura produttiva e dei rapporti di scambio dal XIX secolo a questa parte, con la realizzazione di un mercato unico dei capitali e delle merci. Inevitabilmente ciò ha effetto anche sul mercato della merce più importante ai fini della valorizzazione: la forza-lavoro.
Ciò significa che le dinamiche squilibranti che si sono venute a determinare sul mercato del lavoro a seguito della globalizzazione, non potevano che impattare con sempre maggior violenza sul modello sociale occidentale e su quello europeo in particolare. Del resto l’interesse dalla borghesia e del ceto politico al suo servizio punta esplicitamente a creare una situazione di resa incondizionata della classe lavoratrice, mai così numerosa come oggi ma anche mai così inerte e fatta convinta delle tesi espresse della classe dominante sulla crisi, il debito e la necessità della “competizione”.
Non solo è diventato tabù immaginare un modello di sviluppo alternativo a quello imposto dalla globalizzazione e che non sia ideologicamente funzionale ai grandi interessi (vedi la "decrescita felice"), ma anche solo l’ipotesi di dirigere i processi in atto secondo logiche diverse da quella del furto-svendita dei beni comuni e dello smantellamento del welfare, contrasta con l’interesse di ridare liquidità monetaria alle banche e di rialzare il valore del capitale finanziario. Si permette per contro a paesi come la Cina, la Russia, l’India e il Brasile cospicui interventi statali nell’economia. Insomma, nulla di quanto sta succedendo è casuale, anche se c’è da dubitare in un esito, già a medio termine, che non sia men che catastrofico per chi vive di solo lavoro.
(*) Nonostante la Cina sia la prima potenza demografica e considerata la seconda economia del mondo, bisogna però considerare che nel 2010 ha generato un Prodotto interno lordo (5.900 miliardi di dollari) pari a circa un terzo del Pil dell'Unione europea (16.300 miliardi), mentre la sua popolazione (1.340 milioni di abitanti) è più di due volte e mezzo quella dell'Ue (502 milioni). Detta in altro modo: la Germania ha un Pil (3.300 miliardi) che è più della metà di quello cinese, con una popolazione 16 volte più piccola.
Anche considerando la questione dal lato più ampio, cioè nel quadro dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), si osserva che, pur messi insieme, hanno un Pil (12.500 miliardi di dollari) inferiore a quello degli Usa (14.700), pur avendo una popolazione complessiva 9 volte superiore. Non solo, ma Unione europea e Stati uniti messi insieme continuano a fare la metà del Pil di tutto il pianeta (31.000 miliardi su 62.900). E se a Europa e Usa si somma il Giappone (5.500 miliardi), allora questi tre poli fanno da soli il 60% del Pil globale.
(**) Secondo la vulgata corrente la crisi del capitalismo consisterebbe nella perdita di valore finanziario di alcune decine migliaia di miliardi di capitali speculativi e non già nel fatto che ci siano oggi più di 2,8 miliardi di esseri umani che sopravvivono al disotto della soglia di povertà assoluta (meno di 2 dollari al giorno), che 1,5 miliardi non hanno accesso all'acqua potabile, che 2,6 miliardi non dispongono di servizi sanitari e d'igiene, che 1,7 miliardi vivono in baraccopoli, che da 1,6 a 2,0 miliardi non hanno accesso all'elettricità, che oltre 2 miliardi (soprattutto di giovani) non sanno cosa sia un impiego retribuito, ecc. Tutto ciò non sarebbe – a dire dei dirigenti politici, e dei lupi mannari dei grandi gruppi multinazionali, dei banchieri, e degli economisti – l'espressione di una crisi economica strutturale del sistema attuale.