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È in tale
frangente che «apparvero i difetti
costituzionali della sua [di Cadorna]
mente e del suo carattere», scrive Gatti a p. 424, sicuramente aggravati
dalla dittatura di fatto che in quel momento esercitava anche sul fronte
interno, sostenuto da una stampa strettamente sorvegliata e sotto stretta censura.
Data la
concezione tattica, il carattere impermeabile di Cadorna ad ogni argomentazione
contraria, considerata la situazione sul terreno e le indubbie difficoltà a
superare gli sbarramenti trincerati austro-ungarici, il bagno di sangue fu una
conseguenza inevitabile. Del resto sugli altri fronti europei le cose non
andarono molto diversamente, segno di una mentalità e un atteggiamento comune
presso gli alti comandi alleati. Ciò che lascia sgomenti sono le modalità della
carneficina, gli inutili assalti contro le mitragliatrici, in campo aperto,
armati, almeno all’inizio, solo di moschetto. Inoltre le condizioni di vita erano
al limite della sopportazione per l’assenza di logistica, di servizi essenziali
e un minimo di organizzazione.
Il tratto
distintivo di Cadorna, comune in genere in molti ufficiali di carriera, era il
disprezzo per la vita miserabile e sofferta dei proletari in divisa mandati con
noncuranza a morte certa. L’episodio del fiume Timavo, raccontato da Thompson
nel suo libro, e che vide protagonista quello psicopatico di D’Annunzio, poeta
del massacro, è solo un esempio tra mille consimili, ossia dei tanti sadismi
mistici che si compirono in nome della patria, dell’onore e balle varie.
Sul Monte
Gabriele vi furono 25mila morti in una sola battaglia, il fuoco fu così intenso
che la montagna perse dieci metri, eppure Cadorna di notte dormiva sonno pieno
e tranquillo.
Oltretutto
Cadorna aveva una totale “mancanza di facoltà politica” (p. 357) e dato il suo
“carattere che predomina sull’intelligenza […] non era nemmeno un uomo che
sapeva vedere le grandi questioni d’Europa” (p. 360), per cui il suo potere
assoluto, la sua ostinazione, riuscivano ad alzare tante barriere quante ne
voleva e poteva. Lo scontro con i vertici istituzionali e il Parlamento fu
inevitabile e aspro.
Arrivò la
disfatta di Caporetto, ovviamente non voluta da Cadorna, ma nemmeno evitata. Vi
concorsero tutti gli elementi e le situazioni, non ultimo il comportamento di
Badoglio, la cui carriera era stata fulminea, da tenente colonnello a generale
nel giro di un anno. Egli ritardò di ben dodici giorni di far eseguire gli
ordini di Cadorna sulla disposizione delle truppe nel settore dove poi il
nemico sfondò. Badoglio aveva ordinato che il fondovalle venisse “custodito”
anziché difeso da un contingente minimo. Inoltre – come scrive Thompson –
ordinò al comandante dell’artiglieria di corpo d’armata di non aprire il fuoco
senza il suo ordine. Intorno alle 2.30 del 24 ottobre il comandante richiese il
permesso di sparare per contrastare l’offensiva nemica, ma gli giunse il
rifiuto.
Stava crollando il fronte,
e tuttavia quel mattino, come di consueto, Cadorna, dopo aver fatto colazione
con latte, caffè e savoiardi con il burro, scrive la lettera giornaliera alla
famiglia (Thompson, p. 319). La sera stessa, Gatti vide Cadorna “tranquillo e sorridente” (Thompson, cit., p.
326). Nelle ore cruciali non mancò di diramare un ordine del giorno: «Chiunque
non senta di dover vincere o cadere con onore sulla linea di resistenza, non è
adatto a vivere».
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