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Cadorna fino al 1914 era relegato in un comando
periferico, a Genova. E tale battuta d’arresto della sua carriera non era
dovuta alla sua idea di “attacco tattico”, ma all’intransigente rifiuto del
cosiddetto doppio comando (che tanti guai aveva procurato a suo padre), ossia
il rifiuto di accettare, come eventuale capo di stato maggiore dell’esercito,
la supervisione del Re (e di chicchessia) in caso di guerra, pur non mettendo
in dubbio la supremazia costituzionale del sovrano.
«Del resto Cadorna – come rilevava Gatti – non accetta discussioni di nessun genere,
poiché come tutti i violenti non sa andare innanzi, è un monologhista, non è un
dialoghista. Questo l’enorme difetto di un generale» (pp. 238-39).
Tuttavia la nomina di Cadorna a capo di stato
maggiore dell’esercito, sfumata nel 1908, giunse nel 1914, imposta dalle
circostanze: il suo predecessore, il generale Pollio, moriva stroncato da un
infarto il 1° luglio. Fatto saliente è che Pollio era immune da sentimenti
antiasburgici, “era convinto che l’Alleanza” con Austria e Germania “fosse nei
migliori interessi dell’Italia ed era deciso a far sì che funzionasse”
(Thompson, La guerra bianca, p. 34).
Il primo ministro era Salandra, un reazionario di
prima grandezza, il quale nelle sue memorie scrisse che con la guerra aspirava a
purgare il liberalismo dalla “scoria” democratica. Al ministero degli esteri c’era
Sidney Sonnino, che non poteva essere che filoinglese dato che sua madre era
gallese. Erano appoggiati dagli strati alti della società e dai circoli
industriali che caldeggiavano, per ovvi motivi di profitto, il riarmo e la
guerra.
Ad onor del vero, nella primavera del 1915, Cadorna
si trovò a dover affrontare una situazione d’incertezza politica, un ondeggiare
continuo, che si rivelò assai esiziale per la preparazione di un’offensiva
contro l’Austria. Solo pochi mesi prima, nel luglio 1914, appena nominato capo
di stato maggiore dell’esercito, presentò al Re un memorandum riguardo allo
schieramento di forze contro la Francia, la concentrazione delle truppe italiane
sul fronte occidentale e l’invio di altre sul Reno a fianco dei tedeschi.
Tuttavia nel dicembre 1914 comunicò a Salandra che l’esercito non sarebbe stato
pronto a combattere prima di aprile, convinto oltretutto che la Germania da
sola non avrebbe potuto sconfiggere la Francia.
Il resto della storia è fin troppo noto, ossia di
come in poco tempo l’Alleanza si sfarinò e si venne alla segreta proposta
italiana agli Alleati del 28 febbraio e infine al Patto di Londra. Fatto sta
che l’entrata dell’Italia in guerra permise alla Francia di non doversi
guardare le spalle e alleggerì, o non aggravò ulteriormente, la posizione degli
Alleati sugli altri fronti. Questo merito fu sostanzialmente misconosciuto o
fortemente ridimensionato in seguito dagli Alleati, soprattutto inglesi e
francesi. È fuor di dubbio che se essi si fossero dovuti difendere, nel 1915 e
in seguito, sul fronte alpino dagli italiani, i tedeschi, trovandosi a loro
volta in netta superiorità sul fronte occidentale, avrebbero sfondato. Il
ministro degli Esteri francese scrisse al riguardo: «L’Italia ci ha puntato una
pistola alla tempia. Pensate che cosa significa che nel giro di un mese ci
saranno un milione di baionette italiane sul campo …».
Naturalmente l’Italia stava semplicemente al gioco e
voleva cospicuo bottino, compreso un pezzettino della “carcassa del turco”. Il
20 maggio il Parlamento, dapprima contrario, ratificò l’entrata in guerra. Qual era in concreto la situazione dell’esercito
italiano?
«Nell’estate del 1914 l’esercito italiano era il più debole tra quelli di qualsiasi altra nuova potenza. Decenni di spese elevate per le forze armate, che dal 1900 al 1914 si aggiravano mediamente su un quarto del bilancio statale, non erano riuscite a colmare le carenze in fatto di professionalità o di equipaggiamenti. L’esercito era sovraccarico di personale amministrativo e burocrazia, appesantito ben oltre le sue necessità dai corpi ausiliari (medici, veterinari, chimici, genieri). I problemi di approvvigionamento e di rifornimento erano endemici oltre la metà dei soldati era analfabeta». Inoltre, qualche lustro dopo l’Unità, il governo nazionale decise di «diminuire la presenza piemontese negli alti ranghi dell’esercito, per consentire la promozione di un maggior numero di ufficiali meridionali» (Thompson, op. cit., pp. 70 e 66).
«Nell’estate del 1914 l’esercito italiano era il più debole tra quelli di qualsiasi altra nuova potenza. Decenni di spese elevate per le forze armate, che dal 1900 al 1914 si aggiravano mediamente su un quarto del bilancio statale, non erano riuscite a colmare le carenze in fatto di professionalità o di equipaggiamenti. L’esercito era sovraccarico di personale amministrativo e burocrazia, appesantito ben oltre le sue necessità dai corpi ausiliari (medici, veterinari, chimici, genieri). I problemi di approvvigionamento e di rifornimento erano endemici oltre la metà dei soldati era analfabeta». Inoltre, qualche lustro dopo l’Unità, il governo nazionale decise di «diminuire la presenza piemontese negli alti ranghi dell’esercito, per consentire la promozione di un maggior numero di ufficiali meridionali» (Thompson, op. cit., pp. 70 e 66).
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