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La
tragedia di Caporetto fu grandissima: 300mila prigionieri, diserzioni di massa,
il caos più completo, la perdita quasi completa dell’artiglieria, di tutti i magazzini
e depositi, l’arretramento del fronte di 200 chilometri. Ben prima di questi
accadimenti i soldati erano stremati dalle condizioni inumane in cui erano
costretti, trattati come bestie da macello a rischio in ogni momento della
propria vita per il capriccio di un generale che col binocolo assisteva di
lontano agli assalti.
Tuttavia
la sconfitta non fu totale, completa, anche perché vi furono reparti che
opposero resistenza, di propria iniziativa, cioè contravvenendo agli ordini! Di
contro, l’ampio successo austro-tedesco non si trasformò in vittoria
definitiva. Lo slancio dell'assalto alla pianura veneta si arrestò al Piave
perché non fu supportato da analoga offensiva nel Trentino: i generali
tedeschi, mancando forse d’interesse per una visione strategica globale, non
concessero le truppe necessarie, troppo intenti ad alimentare il carnaio sul
fronte occidentale. In tal modo, con la mancata sconfitta dell’Italia, fu persa
per sempre anche la possibilità, per la primavera successiva, di predisporre un
concentramento di forze tali da poter infliggere il colpo decisivo in Francia,
costringendo in tal modo gli Alleati ad un armistizio.
Dopo
Caporetto, Cadorna puntò i piedi, non voleva lasciare. A battere il pugno sul
tavolo furono gli Alleati. Gli subentrò Diaz, un uomo più docile nei rapporti,
un generale forse meno brillante del suo predecessore, ma anche più incline a
considerare gli aspetti della vita in trincea in precedenza del tutto
trascurati. Furono importati manuali dalla Francia, si cominciarono a costruire
latrine e trincee a regola d’arte, aprire qualche spaccio per i generi di
conforto, a trattare la truppa, se non umanamente, almeno un po’ meno disumanamente.
Arrivarono aiuti anche dagli Alleati, i quali, pur disprezzando gli italiani,
avevano ben presente l’importanza del loro fronte.
Cadorna
non poteva essere mandato subito a casa e perciò gli fu trovato un ufficio
degno del grado e del ruolo che aveva ricoperto. Ecco perché lo ritroviamo a
Versailles nel dicembre 1917, con le sue passeggiate, il suo caffellatte e
biscotti, la puntualità degli orari d’ufficio, di colazione e cena, il sonno
sereno del giusto. E le visite a Chartres, Fontainebleau e alla Malmaison, dove
non faceva che domandare: «Dov’è l’appartamento di Napoleone? Dov’è la stanza
dell’abdicazione? Dove si è voluto suicidare?». Commenta a tal riguardo Gatti: «Era una cosa dolorosa. La guida era un
poco stupita. Si vedeva che il generale ravvicinava in sé la propria sorte a
quella di Napoleone».
Fino al
febbraio dell’anno seguente, quando fu avvicendato anche in quest’incarico
perché chiamato a Roma a difendersi davanti a una delle tante inconcludenti commissioni
parlamentari d’inchiesta che costellano la storia d’Italia. Sulla strada del
ritorno, sceso a Modane, Cadorna si mette a passeggiare un po’ sotto la tettoia
della stazione. Scrive Gatti: «la gente lo guardava, egli era superbo di essere
guardato. È nella sua natura».
Nelle ultime pagine del suo
diario francese Angelo Gatti ebbe a considerare:
«Questo periodo è tremendo e orrendo. Chi ha scatenato questa
guerra merita di morire: chiunque esso sia, in tutte le nazioni. È giusto che
coloro che hanno sofferto siano, d’ora innanzi, gli arbitri dei propri destini.
Vita nuova».
Come solito,
gli elementi appartenenti alle classi dirigenti quando sbagliano non pagano il
dovuto. E questo è tanto più vero più si sale in alto. Se la cavò a buon
mercato, anzi con un avanzamento ad incarico prestigioso, il Badoglio che poi
protrasse i suoi intrighi e la sua carriera fino al 1945. Non se la passò male
nemmeno lo stesso Cadorna che uscì indenne dall’inchiesta. Condannare lui
avrebbe significato dover condannare un’intera classe dirigente, dal sovrano
fino all’ultimo sottosegretario, dagli stati maggiori fino all’ultimo burocrate
ministeriale, dal più grosso industriale all’ultimo accaparratore.
Cadorna tornò quindi a
casa, ai suoi riti quotidiani, a scrivere le sue memorie, a cercare
d’imbrogliare un po’ le carte. Un suo caporale, divenuto nel frattempo un
personaggio di rilievo, lo promosse al grado di maresciallo d’Italia, con
relativo appannaggio. Morì nel suo letto e il cordoglio fu "unanime".
A Pallanza, sul Lago Maggiore, gli fu dedicato un mausoleo.
Intanto complimenti per il blog, davvero un ottimo lavoro. Dal punto di vista economico, sociale e politico la penso esattamente come lei. Pura testimonianza, quindi: come certamente accade anche a lei, dai discorsi che si sentono e dalle facce che si vedono in giro mi rendo conto che, a dispetto del mare di merda in cui affondiamo, non c'è salvezza né redenzione per questo Paese.
RispondiEliminaSolo una nota - da laureato in Storia quale mi accade (inutilmente) di essere - sulla faccenda Cadorna. Non sono necessariamente, sul piano strategico e operativo ,un sostenitore di Cadorna (ce ne sono ancora molti: siamo sempre nel Paese di Coppi e Bartali), ma alcune cose vanno, per usare un termine oggi improvvisamente e sciaguratamente di moda, contestualizzate. Al di là del fatto che anche sugli altri fronti la macelleria non era tanto diversa da quella del fronte italiano, studi relativamente recenti - e anche un best seller come The Pity of War di Niall Ferguson - ci dicono che l'antitesi "inermi proletari in divisa / comandanti sanguinari" è in parte la ricostruzione postbellica di una realtà più complessa. Purtroppo anche tra i proletari in divisa il gusto della violenza e della morte, gli ideali nazionalisti, la brutalità e l'esaltazione di essa erano molto più largamente condivisi di quanto si pensi oggi. D'Annunzio sarà anche stato psicopatico, ma la sua psicopatia, in lui acutizzata e stridula tanto da renderlo oggi insopportabile, era - sia pure a livelli più soft - piuttosto diffusa tra le truppe combattenti e in non sottilissimi strati dell'opinione pubblica (adeguatamente indirizzata dai media e dalla temperie ideale di quella società, ovviamente). Non entro nel dettaglio delle operazioni: sarebbe troppo. Mi preme solo sottolineare che è importante, nel cercare di capire la storia, sforzarsi di mettere i nostri sentimenti e i nostri filtri ideologici il più possibile da parte, per lasciare parlare i contemporanei. Cosa per nulla facile, per tanti motivi.
ho cercato di tratteggiare, come ho potuto, un ritratto di cadorna, pur sommario necessariamente e frettoloso. del resto questo è solo un blog.
RispondiEliminala sua nota raccoglie indubbamente un aspetto di quella tragedia e andrebbe convenientemente valutato:
"il gusto della violenza e della morte, gli ideali nazionalisti, la brutalità e l'esaltazione di essa erano molto più largamente condivisi di quanto si pensi oggi".
Questo, almeno all'inizio del conflitto, è vero, ma riguarda soprattutto i ceti medi e la borghesia a contatto con la stampa e l'ambiente urbano. viceversa il pastore sardo, lo zolfataro siciliano, il bracciante pugliese subivano in misura molto attenuata la propaganda. Questi giovani proletari, quando arrivavano al fronte e si rendevano conto della carneficina, diventavano veramente poco patriottici.
per quanto mi riguarda ho cercato di dare la parola al colonnello gatti e allo storico Thompson, alle relazioni ufficiali. da ultimo ho riportato prorio le parole testuali del colonnello gatti, credo siano decisamente eloquenti.
non ho ancora letto il libro di Niall Ferguson (ho letto alcuni suoi articoli sul corriere). credo che la guerra non si potesse evitare. engels, per es., l'aveva preconizzata fin quasi nei dettagli molto tempo prima. va tenuto conto che i contrasti interiperialistici si sono sempre risolti, come lei ben sa, con la guerra.
grazie x l'attenzione e cordiali saluti