La puerilità della comparsata televisiva dell’on. segretario Pierluigi Bersani sta essenzialmente nel fatto che egli sorvola disinvoltamente sulle cause che determinano i “pochi che hanno troppo e troppi che hanno poco”. Come se ciò dipendesse da un castigo divino piovuto dal cielo. Avesse almeno alluso alle cause, anzitutto economiche, che producono enorme ricchezza da un lato e povertà e desolazione dall’altro, sarebbe stato il minimo per un segretario di un partito di sinistra. Ma per un dirigente del Partito democratico entrare nel merito di queste faccende, portare il discorso sul piano strettamente politico, affermare cioè che le forti disuguaglianze sono la causa e la condizione essenziale dell’accumulazione capitalistica, sarebbe come chiedere al papa di affrontare quelli che egli chiama “peccati” da un punto di vista strettamente sociale e storico.
“Chiamare flessibilità una vita precaria è un insulto”, declama Bersani. E quarant’anni di lavoro salariato in fabbrica o in un cantiere, cos’è, il lato bello della vita? La sinistra si è ridotta ad auspicare uno sfruttamento “normale”, garantito, dopo aver legiferato per anni in accordo pieno con Confindustria.
"Chi si ritiene progressista deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace, senza odio e violenza, combattere contro la pena di morte e ogni sopraffazione, contro l'aggressività che ci abita dentro, quella del più forte sul più debole".
L’aggressività che ci abita dentro, dice Bersani, è un problema antropologico. Ecco come s’è ridotta ciò che un tempo era la sinistra.
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