venerdì 12 novembre 2010

Parigi, 1919 / 3



In quell’anno le donne dotate di qualche fascino si divertirono molto a Parigi. Infatti erano pochi i delegati accompagnati dalle rispettive mogli, ed anzi ai più giovani ne era stato fatto esplicito divieto. Maurice Hankey, segretario di gabinetto britannico, scrisse alla moglie: “A quanto pare tutte le signore più attraenti e meglio vestite del bel mondo sono state portate qui dai vari ministeri. Non so come lavorino, ma la sera ballano e cantano e giocano a bridge!”.
Un ufficiale britannico, fermatosi a Parigi dopo un viaggio di centinaia di chilometri per riferire sulla situazione dell’Europa centrale, ripartì disgustato.  Raccontò ad un collega americano che “nessun parigrado si era dato la pena di ascoltare il suo resoconto delle spaventose condizioni in cui si trovava la Polonia perché erano tutti impegnati a discutere se la sala da ballo dovesse essere usata per le recite teatrali il martedì e il giovedì, escludendo il ballo, oppure solo il martedì”.
Le nazione che aveva  qualche supplica da presentare si prodigavano in pasti sontuosi nel corso dei quali snocciolavano le loro richieste. Un caso limite fu l’invito, da parte della delegazione cinese, dei giornalisti della stampa estera a una cena speciale: mentre le portate si susseguivano ora dopo ora e gli ospiti restavano in attesa che i padroni di casa esponessero le loro ragioni, i cinesi continuarono a chiacchierare in un inglese impeccabile di questo e di quello, di tutto fuorché della Conferenza di pace. Alle tre e trenta del mattino i corrispondenti americani abbandonarono il campo, lasciando uno dei loro perché riferisse sul seguito. Quando infine anche questi se ne andò, alle prime luci dell’alba, i cinesi non avevano ancora spiegato i motivi di tale loro invito.
E la delegazione italiana? Alloggiava nel sontuoso hotel Edouard VII, vicino all’Opéra. Solo a uno dei delegati era stato concesso di portare con sé la moglie, forse perché si erano appena sposati. Pochi dei suoi membri coltivavano quei contatti informali con le altre delegazioni che erano invece prassi comune, per esempio, per i britannici o gli americani. La delegazione, in sé, rifletteva le divisioni politiche presenti nel governo: “Un pezzo di Roma trasportato a Parigi insieme a tutti i difetti che ne conseguono”, commentò uno dei partecipanti. “Mancanza d’organizzazione, prevalenza di alchimie parlamentari (presenti e future) nella scelta del personale, pettegolezzi e maldicenze”. Insomma, Berlusconi non ha inventato niente, ma ha contribuito a rinverdire la tradizione, magari peggiorandola.  È presto per dire.
La delegazione italiana alla Conferenza (Orlando, Salandra e soprattutto Sonnino) si comportò con tale autolesionismo che le conseguenze si fecero sentire nei decenni successivi. Gli italiani furono accusati, dai mercanti Wilson e Clemeceau, di “avidità”. Quest’ultimo si comportò in numerose occasioni peggio degli italiani, a cominciare dalle pesantissime condizioni imposte ai tedeschi, stigmatizzate perfino da Usa e G.B.. Ad ogni buon conto gli italiani ci misero del loro, cercando, per esempio, di impadronirsi delle ferrovie austriache costruite con i soldi francesi, e linciando a Fiume alcuni soldati di Clemenceau. La Francia comunque cercò di favorire la Iugoslavia per tener occupata ad est l’Italia. Wilson fu accusato da Orlando di essere stato comprato dagli iugoslavi. Insomma un bell’ambientino.  
Sulla spartizione della “carcassa del turco”, cioè l’Impero ottomano, l’indipendenza araba, la Palestina, con al centro gli accordi segreti Sykes-Picot, la dichiarazione Balfour, scriverò forse qualcosa più avanti.
Per le notizie di questi tre post, non mi sono avvalso di “segugi”, ma le ho tratte prevalentemente, in alcuni casi letteralmente, da: Margaret MacMillan, Parigi 1919, Mondadori, 2006.

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