martedì 16 novembre 2010

Il paese delle élite senza controlli


Si capisce che in questi giorni si parli tanto di corruzione. È giusto. Ma qualora se ne desumesse che il principale problema italiano sia l'illegalità, si commetterebbe un grave errore, già compiuto in passato.

La maledizione (cronica) di questo paese è un'altra. È la pessima qualità della sua «classe dirigente» (mai virgolette furono più opportune). Non solo della leadership politica: anche del ceto imprenditoriale e della stessa intellettualità. Il declino di un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome è inevitabile.

Prima ancora che il declino morale, quello civile, culturale e – come notò Pasolini – persino «antropologico». La corruzione e l'illegalità dilagano quando l'organismo sociale è malato in profondità. E la malattia, che ha spesso origini lontane, è in gran parte conseguenza delle cattive prestazioni di chi dispone dei poteri e degli strumenti della direzione e avrebbe il compito di operare per il progresso del paese.
 
Perché pessima la classe dirigente italiana? Perché a sua volta corrotta e propensa all'illegalità? C'è di peggio: la caratteristica più deteriore è una radicata connotazione castale che riflette la mancanza di «spirito pubblico», la sostanziale indifferenza per le sorti della collettività.
 
Se l'aspetto progressivo della modernità consiste nell'abolizione della trasmissione ereditaria dei ruoli sociali, in Italia la modernità non è mai arrivata. Siamo una società chiusa e immobile (anche sul piano generazionale), comandata da un'oligarchia determinata ad autotutelarsi. Fatte le debite eccezioni, la classe dirigente italiana si considera una corporazione e come tale tende a riprodursi. Chi ha (o sa) impiega il proprio potere per garantire se stesso e i suoi. Ne discendono, a cascata, familismo, particolarismo e autoritarismo. E un'attitudine parassitaria nei confronti del pubblico, considerato essenzialmente come terreno di conquista. A questo punto, legalità o corruzione fa poca differenza: non solo perché - come si è visto - le leggi fastidiose basta cambiarle a proprio uso e consumo, ma anche per l'estrema opacità delle procedure in base alle quali, in tutte le sedi e a tutti i livelli, si prendono le decisioni che veramente contano.
 
Da questo punto di vista, la storia repubblicana - soprattutto negli ultimi vent'anni - non è granché diversa da quella dell'Italia liberale. Con una differenza. I teorici delle élite, da Mosca a Pareto e Michels, potevano permettersi di teorizzare l'inferiorità naturale del popolo, in particolare l'incapacità del proletariato di auto-organizzarsi. A loro giudizio, la necessità ferrea del comando oligarchico derivava dall'inferiorità fisica, biologica delle classi lavoratrici, ed essi potevano dichiarare questo convincimento, del resto suffragato dalla rigida gerarchia sociale. Oggi queste cose non si possono più dire, quindi ci si limita a praticarle. Il risultato è un elitismo pseudo-democratico, che assegna al «popolo sovrano», debitamente disinformato e rincoglionito, il ruolo della base di consenso e della massa di manovra.
 
Se questo è vero, il rischio maggiore si corre ogni qual volta questa classe dirigente medita grandi riforme per costituzionalizzare il proprio dominio e chiudere la forbice tra i nobili principi traditi e i miserabili fatti compiuti. Vengono i brividi a immaginare di questi tempi Bicamerali o Costituenti. Come pure a sentire Luca di Montezemolo discettare di nuove élite pubbliche, valori etici e riforme dello stato, lui che - del tutto legalmente - si è appena aumentato lo stipendio del 40% (parliamo di qualcosa come 5 milioni e mezzo di euro l'anno, per capirci), mentre la Fiat munge miliardi alle finanze pubbliche e - altrettanto legalmente - getta sul lastrico decine di migliaia di operai.

Morale: speriamo proprio che Berlusconi cada al più presto. Quando ci libererà dalla ingrata presenza sua e dei suoi cortigiani faremo festa. Ma sia chiaro che i veri problemi di questo paese saranno ancora lontani dall'essere risolti.

articolo di Alberto Burgio
Il manifesto, 26-2-2010

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