Come sonnambuli, avanziamo senza comprendere veramente la destabilizzazione del mondo che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi. Vi è una questione esistenziale nel confronto tra le due superpotenze. Diventando capitalista, la Cina è stata costretta a sfidare ciò che ha permesso la sua ascesa, ovvero una globalizzazione concepita, organizzata e controllata da e per gli Stati Uniti.
Ora, è il capitalismo stesso che mina la globalizzazione e porta all’attuale frammentazione. Questa contraddizione sta portando a una riorganizzazione del mercato globale, creando nuove infrastrutture tecnologiche, monetarie e fisiche che aggirano la supervisione americana. Questo approccio pone Pechino sulla strada di uno scontro diretto con gli Stati Uniti che, in un modo o nell’altro, rimodellerà il nostro mondo.
Nell’immaginario collettivo occidentale e in particolare in quello statunitense, creato ad hoc dai media, la Cina è diventata il nemico pubblico numero uno. Questa percezione ha fornito la scusa perfetta per lanciare una svolta nazionalista, incarnata da Trump, e incanalare gli sforzi nazionali verso il raggiungimento della cosiddetta autonomia strategica. Pechino ripaga con la stessa moneta, ossia con una strategia uguale e contraria.
Le multinazionali hanno potuto sfruttare la manodopera cinese, ma Pechino ha saputo imporre alle aziende straniere di trasferire tecnologia a vantaggio delle aziende cinesi, permettendo, nel tempo, alla Cina di costruire una base industriale altamente competitiva. Quindi la Cina si è assicurata il controllo di una quota dominante delle forniture globali di terre rare, componenti essenziali per molti prodotti ad alta tecnologia.
La Cina concede licenze di importazione di terre rare solo in cambio di dati dettagliati sui sistemi operativi, sui dipendenti e, in alcuni casi, persino sulle immagini dei prodotti e degli impianti di produzione. Pechino non solo ha ottenuto una riduzione dei dazi, ma anche la riapertura delle frontiere statunitensi agli studenti cinesi, che già riempiono le aule delle migliori università americane.
Infatti, il governo cinese ha sostenuto concretamente i propri studenti nelle migliori università americane ed europee, soprattutto in ambito scientifico e ingegneristico, per poi tornare a lavorare in patria. Allo stesso tempo, ha investito molto nelle proprie università più prestigiose, che da allora hanno scalato le classifiche mondiali e ora formano la metà dei laureati in ingegneria del mondo.
La Cina ha dimostrato che il capitalismo di Stato, pur non risolvendo la contraddizione fondamentale insita nel modo di produzione capitalistico, funziona meglio dell’ordo liberismo. La lezione è stata colta, ne è una conferma, solo per citare l’ultima notizia, che il governo statunitense acquista il 10% di Intel. Ma già nell’agosto di tre anni fa, Washington varava l’Inflation Reduction Act (IRA), un piano di sussidi di 380 miliardi in dieci anni, riservati a chi usa componenti americani. Il motto trumpiano (Make America Great Again) non è altro che una presa d’atto di questo duello all’O.K. Corral.
L’UE non è stata a guardare, il solo sostegno alle energie rinnovabili costa ogni anno circa 80 miliardi di euro. Inoltre, il 40 per cento dei 750 miliardi del programma di Next Generation EU, 300 miliardi di euro, viene speso nel cosiddetto settore verde nell’arco di pochi anni. Il sussidio per i veicoli elettrici non è disponibile per auto prodotte all’estero, dunque non devono stupire i dazi sul commercio “reciproco” di Trump. È una guerra commerciale con lo stesso obiettivo.
La corsa al riarmo è un altro esempio di domanda aggregata a sostegno dell’economia, ma non i demenziali impegni assunti dalla presidente della Commissione Europea per acquisti esorbitanti di sistemi energetici e di difesa statunitensi da parte della UE. Insomma, tutto ci sta dicendo che gli Stati Uniti e la UE stanno mobilitando ingenti risorse finanziarie per rimodellare il proprio sistema produttivo, finora basato sulla crescita esclusivamente sulle esportazioni nette.
Ciò si tradurrà, volenti o nolenti, in ulteriori aumenti del debito pubblico, delle imposte e tagli alla spesa sociale e altri interventi pubblici.
Per finire, una breve nota sulle dichiarazioni di Draghi Mario. Recentemente, in un convegno di mistici allucinati, ha sostenuto che grazie alla «fede nel libero scambio e nell’apertura dei mercati, [... e] una consapevole riduzione del potere degli Stati [...] L’Europa ha prosperato». Ebbene, dice l’opulento pensionato, «quel mondo è finito».
Purtroppo quel mondo e i suoi presupposti ideologici non è finito. Quale Europa ha prosperato negli ultimi trent’anni? Non i salariati italiani e non i condannati al precariato a vita (le “politiche del lavoro” alla Biagi Marco). A Draghi Mario serve un po’ di contatto con la durezza del vivere. Inizierei togliendogli la scorta.
Ha prosperato l’Europa di quelli che hanno fatto festa con la svendita del patrimonio pubblico, che sono contrari alla scala mobile, che lucrano sulle tariffe, i prezzi dei beni essenziali e sulle concessioni demaniali, che beneficiano a manica larga di incentivi fiscali, che sfruttano il più sfacciato offshoring, che “manca la manodopera”, che privatizzano la sanità, che spingono l’ossessione per la digitalizzazione (a pagamento), quelli che pianificano il consumo di stupidaggini e il ritardo mentale, eccetera. Una genìa cinica e cattiva ma devota a Draghi, che ci chiede di cambiare il nostro “stile di vita”, di metterci a 90° se vogliamo il riscaldamento e il climatizzatore.
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