venerdì 22 agosto 2025

Genocidio palestinese: la responsabilità degli Stati arabi


La forma di colonizzazione della Palestina da parte dei sionisti muta con il mutare della collocazione politica della Palestina nell’ambito del Medioriente. La prima di queste forme di colonizzazione è stata quella classica, caratterizzata dal trasferimento di terre di proprietà araba a proprietari ebrei. È la forma prevalente nel periodo che precede la prima guerra mondiale, quando in Palestina era già presente una modesta comunità (yishuv) ebraica prima delle due aliyah del 1881 e del 1903-05.

Questa comunità aveva un carattere coloniale tradizionale, in quanto, per lavorare le loro terre, i coloni facevano ampiamente ricorso allo sfruttamento del lavoro di braccianti arabi. Venuti per lavorare la terra con le loro mani, questi primi coloni si erano trasformati, grazie allo sfruttamento della manodopera araba e alle sovvenzioni provenienti dall’estero, in piccoli proprietari agricoli, molto prosperi rispetto ai livelli di vita in Palestina a quell’epoca.

Non si ponevano problemi di tipo nazionalistico. Il vecchio yishuv accolse perciò con ostilità e sospetto l’arrivo degli immigrati della prima aliyah (gli Amanti di Sion), vedendo in essi elementi capaci di sovvertire il loro tradizionale modo di vita, e concorrenti pericolosi nella distribuzione delle sovvenzioni inviate dagli ebrei europei e americani. Essi manifestarono apertamente la loro ostilità ai nuovi venuti e giunsero al punto di informare le autorità ottomane sul loro conto per ottenerne l’espulsione.

Con la seconda aliyah giunsero strati sociali diversi, già toccati dal sionismo (dalle diverse facce del sionismo), che reagiranno, in funzione delle proprie aspirazioni e dei propri interessi, in modo diverso all’ideologia sionista e ai problemi imprevisti posti dalla concreta “arabità” della Palestina. Si aggiunga che sulla Palestina, come su tutto l’oriente ottomano, si appuntavano gli sforzi di penetrazione delle potenze occidentali. Come ho già evidenziato in un post precedente (*), per queste ultime si trattava di esportare, qui con la guerra e la conquista, là con la diplomazia e il commercio, assai spesso combinando le due cose, i rapporti economici capitalistici.

Per un tale progetto si dovevano usare tutti i mezzi locali a disposizione: classi privilegiate pronte a riciclarsi nel ruolo di compradores, minoranze religiose o tribali inclini ad appoggiarsi allo straniero per raggiungere a proprio favore l’equilibrio intercomunitario (vedi la vicenda Thomas Edward Lawrence). Anche in questo caso lo sfruttamento capitalistico della manodopera indigena e lo sfruttamento delle materie prime costituiva il centro di gravità pratico dell’impresa coloniale.

In questo contesto, il movimento sionista interviene come soggetto e non come docile strumento di interessi economici e strategici occidentali. La sua alleanza con questi interessi è spesso conflittuale; deriva ovviamente da oggettive convergenze, ma anche da espedienti nel quadro dell’assalto del mondo occidentale al mondo arabo.

È chiaro perché i sionisti dall’inizio del secolo hanno continuamente fatto balenare davanti agli occhi dei loro interlocutori europei questa possibilità di utilizzazione della comunità ebraica. Questa funzione, essenziale per ottenere il sostegno delle potenze occidentali al progetto sionista, è solo uno strumento, non la finalità. Per i sionisti si trattava, e la storia lo ha confermato fino i nostri giorni, non di trasformare la società palestinese, ma di appropriarsi del suo spazio, del suo territorio e delle sue risorse, rimandando la popolazione palestinese nel deserto.

La volontà di possesso esclusivo dello spazio, costituisce la specificità del colonialismo sionista, che fa pensare alla colonizzazione europea dell’America del Nord. Alla radice di questa rivendicazione sullo spazio, c’è il nazionalismo ebraico: un nazionalismo suprematista e razzista, informato a creare una società completamente ebraica, dove gli ebrei avrebbero occupato tutti i livelli dell’organizzazione economica e amministrativa. Di qui la necessità di negare il popolo palestinese; di qui la necessità di quello slogan: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, che era e resta una favola per gli occidentali, ad uso e consumo della loro cattiva coscienza.

Subito dopo l’indipendenza, i Paesi arabi si sono impantanati in litigi interni e di vicinato, mentre Israele iniziava a costruire uno stato potente militarmente ed economicamente, coltivando la sua protezione strategica non solo a Washington, ma anche in Europa e in Asia, tramite Mosca.

Con la disfatta araba nel 1967 e l’occupazione da parte di Israele di territori arabi, posti sotto amministrazione giordana e egiziana (come la Cisgiordania e la striscia di Gaza, o parte integrante dei territori nazionali egiziani e siriani, come il Sinai e il Golan, e la riunificazione della Palestina mandataria, si è operata un’altra mutazione storica, sempre nel solco del progetto sionista della grande Israele.

La risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU (e molte altre risoluzioni), tracciava a grandi linee, nel novembre 1967, lo scenario di una soluzione politica della questione arabo-israeliana: a garanzia dell’inviolabilità territoriale e dell’indipendenza per tutti gli Stati della regione e restituzione da parte di Israele dei territori occupati nel corso della guerra.

La sorte del popolo palestinese (popolo, non in quanto nozione astratta, ma in quanto comunità vivente che si confronta da decenni quotidianamente con l’occupazione militare israeliana, con l’apartheid e con l’esilio) è mutata con il mutare della sua collocazione politica nell’ambito del Vicino Oriente.

Il fanatismo islamico, abilmente manovrato da molti burattinai, non ultimi gli israeliani, ha fatto buon gioco proprio a Israele. Ed infatti l’abbandono della causa palestinese da parte dei Paesi arabi è iniziato all’indomani dell’11 settembre 2001. Gli Stati arabi che avevano consacrato questa causa l’hanno brutalmente sacrificata per difendere i propri regimi, accusati da Washington di collusione o debolezza nei confronti del terrorismo islamico. Scacco matto e partita (**).

Oggi, il Medioriente è interamente dominato da tre potenze regionali non arabe: Israele, Iran e la Turchia neo-ottomana. Ed è in questo contesto di collasso del vecchio ordine che i cosiddetti Accordi di Abramo sono stati annunciati da Donald Trump, alla ricerca di un primo successo diplomatico per coronare il suo mandato alla Casa Bianca. La svolta geopolitica arabo-israeliana ha portato a una nuova situazione in Medio Oriente e a un diffuso riconoscimento di Israele.

Senza questa svolta, Benjamin Netanyahu e i suoi complici negli Usa e in Europa non avrebbero potuto compiere ciò che hanno messo in atto.

Infine un accenno sulla questione ebraica: è stata ideologizzato dal sionismo, che sulle colpe dell’antisemitismo europeo ha fatto accettare come “diritto” dell’ebraismo l’occupazione della Palestina. E così il sogno della grande Israele ha raggiunto, con il genocidio e l’espulsione dei palestinesi, una tappa fondamentale del suo processo egemonico e razzista. Temo ci sia poco da illudersi, l’espansionismo territoriale ed economico ebraico nel prossimo futuro non si arresterà alla sola Palestina.

(*) Tra gli scopi di Londra, con la dichiarazione Balfour, vi era quello di costituire, con la nascita di uno Stato ebraico, un baluardo orientale del canale di Suez. Né va trascurato che in seguito, l’Inghilterra era riuscita a fare del porto di Haifa il terminale che collegava il flusso del greggio dei ricchissimi giacimenti di Mosul al Mediterraneo, da dove avrebbero raggiunto i depositi della Royal Navy. Con la costruzione dell’”Iraq-Haifa Pipeline”, i cui lavori furono completati nel 1934, il Regno Unito conquistava stabilmente la sua indipendenza energetica e limitava o escludeva le altre potenze mediterranee (Francia e Italia) dal controllo sulla produzione dei maggiori giacimenti petroliferi mondiali.

(**) Per chi non lo sapesse o avesse la memoria corta, ricordo che quando il presidente egiziano Anwar Sadat visitò Gerusalemme e firmò gli accordi di pace di Camp David, la Lega degli Stati Arabi escluse l’Egitto e trasferì la sua sede a Tunisi. Poi, la stessa Lega respinse la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di convocare un vertice arabo per condannare l’annunciata pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Dunque nulla di nuovo sotto il sole.

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