lunedì 5 aprile 2021

La noiosa finzione

 

Oggi, nel 1908, cominciava ad agitare i suoi braccini Herbert Karajan. Nel caso il personaggio non incontri il vostro favore, segnalo che nello stesso giorno ed anno vagiva Betty Davis, nota per i suoi melensi film, pericolosi per gli iperglicemici.

*

Quando frequentavo la scuola dell’obbligo, posi all’insegnante di religione, un prete che si faceva chiamare Professore, una domanda alla quale egli rispose così: fin dalle epoche più remote gli uomini hanno sentito il richiamo a un qualcosa o qualcuno considerato superiore all’essere umano e alla vita stessa. Sul momento non trovai parole per replicare, cosa che già allora mi capitava di rado.

Anni dopo, sempre a scuola, arrivati agli ultimi capitoli del terzo volume del Sommario di storia della filosofica di Mario Dal Pra (non il testo scolastico migliore), incontrammo Ludwig Feuerbach e diventammo, per dirla con Engels, “tutti feuerbachiani”. Non proprio all’unanimità, ma solo i più discoli tra noi.

Nello stesso frangente, sulla via di Damasco, incontrai un certo Karl Marx. Bisogna aver provato direttamente, così giovani, l’azione liberatrice di questo potente pensatore per farsene un’idea. Anche se in seguito tale frequentazione mi procurò qualche livido, ne valse la pena. Da un punto di vista intellettuale, vorrei dire mentale, fu l’incontro più importante della mia vita, e non solo della mia.

A proposito di religione, tra le cose che scrisse Marx una frase divenne celeberrima: “la religione è l’oppio dei popoli”. Questa parafrasi è citata immancabilmente fuori del suo contesto. La citazione esatta è:

«La sofferenza religiosa è, allo stesso tempo, l’espressione della vera sofferenza e una protesta contro la vera sofferenza. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo senza cuore e l’anima delle condizioni senz’anima. È l’oppio del popolo».

Subito prima di questo passo, si legge:

«Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, la religione non fa l’uomo. La religione è, in effetti, l’autocoscienza e l’autostima dell’uomo che non ha ancora vinto se stesso o ha già perso se stesso di nuovo. Ma l’uomo non è un essere astratto accovacciato al di fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo: stato, società. Questo stato e questa società producono la religione, che è una coscienza invertita del mondo, perché sono un mondo invertito. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo punto d’onore spirituale, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo complemento solenne e la sua base universale di consolazione e giustificazione. È la realizzazione fantastica dell’essenza umana poiché l’essenza umana non ha acquisito alcuna vera realtà».

Mi soffermo su questi concetti: l’essenza umana non ha acquisito alcuna vera realtà, la religione è la logica in forma popolare di questo mondo (ossia della società attuale).

Ecco il punto: Marx, che scrive queste cose con tale realismo a soli 24 anni, non pretende di passare la religione al vaglio della ragione, come intendono molti. Non si limita nemmeno ad indicare i difetti della religione, ossia le contraddizioni, ma indica i motivi per i quali la fede non può contraddire la ragione, anche se non arriviamo (provvisoriamente o anche definitivamente) a capire tutto ciò che ci circonda. La religione resta la realizzazione fantastica dell’essenza umana alla quale possiamo contrapporre l’emancipazione dalle condizioni della nostra sopravvivenza.

Lo schiavo che ha acquistato coscienza della propria condizione e si leva nella lotta contro di essa, cessa già a metà di essere uno schiavo. Ecco perché le classi dominanti trovano tanto utile la religione per assecondare i propri interessi e tenere occupate le masse. Perfino Robespierre ne fondò una per proprio conto e Saint-Just ne assunse il ruolo di teologo, mentre anche Stalin si servì dei preti nel momento di maggiore difficoltà.

L’umanità è partita dalla personificazione delle forze della natura per far nascere le favole sugli dèi, poi è passata alle religioni cosiddette monoteiste, con i loro miracoli e demoni, gridando tanto all’apocalisse che essa non verrà (se non oggi come aurora nucleare, meteorite o gas serra). Poi la Terra smise di essere ferma al centro dell’universo e la libera scelta prese il sopravvento sui miti millenari.

C’è voluta una coscienza miserabile quanto la miseria che la produceva perché la religione si mantenesse sugli altari e sul trono per tanto tempo, finché ha cominciato ad affermarsi, dapprima nelle classi colte e nei soggetti più avvertiti, un diffuso e profondo senso d’insoddisfazione verso di essa e il suo arsenale di dogmi, divieti e colpe.

Non è un caso che la religione sia a volte sostituita dalla psicanalisi, condiscendente senza limite verso le colpe, sempre ricominciate, però facendole pagare. 

Un processo in continuo sviluppo, che risente ancora molto di certe arretratezze e di persistenti influenze educative che predicano la rassegnazione in cambio di una ricompensa ultraterrena, ossia uno stato delle cose che non può essere superato demblée, tra l’altro in pieno mercato dell’insicurezza e di una rabbiosa apatia.

Pertanto, la risposta che allora avrei voluto dare a quel prete, che detestavo cordialmente, andava formulata ponendogli altre domande: se il senso religioso è così naturale e la fede spontanea, perché la Chiesa s’impadronisce con tanta fretta dei bambini per catechizzarli, marchiarli con la sua morale e i suoi sacramenti? Perché, nonostante tali premure, man mano che la società si sviluppa e gli uomini progrediscono assumendo una coscienza razionale e scientifica, aumenta il numero di chi abbandona la religione e ne rifiuta i pregiudizi?

Non vorrei farla troppo facile, poiché la vita di ciascuno è fatta di tante cose, ma mi pare evidente che in generale il bisogno di consolazione religiosa, nelle sue diverse forme, sorge in date condizioni storico-sociali, economiche, educative e culturali, e però tale bisogno può essere superato sulla base della conoscenza razionale e nuove condizioni di vita, laddove l’essenza umana acquisti vera realtà, per dirla con il Grande Vecchio.

Ciò non è sufficiente se non accompagnato da una lotta ideologica contro coloro che, approfittando delle più delicate situazioni personali, inzuppano il pane nelle ferite esistenziali.

Gli esseri umani continueranno a porsi delle domande sul senso della loro vita, sulla sua fine, con inevitabile pluralità di risposte. Ma questo bisogno dinterrogarsi, connaturato con la vicenda e la coscienza umana, non c’entra con la religione se non nella misura in cui si accetta di restare prigionieri della noiosa finzione dell’esistenza di un’anima e dell’immortalità personale.


13 commenti:

  1. Secondo me, il superamento "sulla base della conoscenza razionale e nuove condizioni di vita" è in larga parte già avvenuto, anche in attesa della "vera realtà" preconizzata dal Grande Vecchio. Ostia, la cosa è davanti ai nostri occhi: ma, se non riteniamo sufficienti i rilievi di sociologia spicciola ottenuti guardando le persone per la strada o nei locali, o magari facendo il conto di quante persone a noi conosciute sono credenti, allora facciamo un test pratico, recandoci alla messa della domenica in una qualunque chiesa cittadina. Ci accorgeremo che è facile far rispettare le normative anti-Covid. E sai perché? perché i fedeli sono rimasti in pochi. Se poi ci dilettiamo a calcolare l'età media, stimeremo che nel 2030 i due terzi dei presenti in chiesa saranno a godersi il Paradiso, su una bella nuvoletta. Tutto ciò, lo ribadisco, mentre vige il sistema capitalistico. Timidamente, mi spingo a ipotizzare un rapporto di causa/effetto: è proprio il capitalismo che ha secolarizzato la società in cui viviamo.

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  2. Esistono solo le verità che siamo disposti ad accettare, le altre restano dietro gli ornatissimi paraventi culturali.
    La vita, in fondo, è uno stato mentale (chissà l'ha detto per primo).
    Bel pezzo, grazie.
    [Peppe]

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    1. La vita uno stato mentale? Ricordartelo domani mattina quando ti alzi per andare al lavoro... ciao

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  3. a mio modesto avviso Marx intende la religione, fatto umano, come qualcosa di complementare e non contrapposto alla realtà conosciuta. Quindi fatto inevitabile, non positivo, non negativo, ma storico. Pensare che la religione decada con la conoscenza, soprattutto in quantità, è teleologia, è speranza, è altra religione, ciao.

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    1. Dove avrei scritto che la religione si supera solo con la conoscenza?

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  4. no, niente, era un avviso.

    L'uomo non può superare propri limiti, può riconoscerli, ma superarli sarebbe come pensare di non morire o pensare di indovinare il futuro o addirittura di sconfiggere il covid in Italia con 4 vaccini americani.
    In Italia si vede l'anticovid come religione ed è complementare al covid (nelle chiese sempre aperte addirittura si sovrappongono). O per meglio dire, è complementare a ciò che ignoriamo del covid stesso (quale origine? dove? perché tanto in nord Italia? perché i vecchi? boh, chiudi tutto per tutti). Quindi è vero che tanto più ignoranti tanta più religione, ma tutti abbiamo limiti, è fatto umano.
    Il problema è semmai la secolarizzazione, il clero, ma si configura come qualsiasi borghese proprietario. Finiscono sempre per mettere al governo un banchiere.
    La superstizione dipende da società, dalla qualità di vita in essa, dipende dalla capacità sociale, dallo stato, da chi lo occupa e controlla.
    Ho finito, vado a messa.

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  5. A proposito, invece, dell'agitarsi delle braccia di Karajan, e del favore che può incontrare il personaggio, ti faccio dono di un mio scritto di anni fa (non è indispensabile che il commento appaia).

    Non che Karajan fosse simpatico a qualcuno. Temuto, quello sì. Dove li avesse imparati i modi da dittatore tutti lo pensavano, ma nessuno lo diceva. Certo, c’era chi si ribellava, come per esempio i Berliner Philharmoniker. Tanto che il poveretto a un certo punto si era trovato nella situazione di non poter più dirigere né i Berliner né i Wiener, con i quali aveva litigato precedentemente. A Bayreuth non ci andava, non andando d’accordo, credo, con i discendenti di Wagner, ma in compenso aveva messo su un festival wagneriano a Salisburgo, dove comandava lui. A Salisburgo, naturalmente, selezionava con cura i direttori. Nessuno che potesse dargli ombra ci metteva piede.

    Come macchina da soldi era fenomenale, ed è per questo che gli orchestrali di Berlino lo sopportavano. Ha inciso tutto l’incidibile (si diceva così). Come direttore, grande. Ed era cambiato, nel tempo (non so se si può dire che si era evoluto). Nei primi anni del dopoguerra, quando si faceva la distinzione fra direttori classici e romantici (Toscanini versus Furtwaengler, per intenderci) bisognava ascriverlo ai primi: aveva maturato uno stile asciutto, molto attento alla lettura esatta del testo, con enorme cura per la precisione dell’orchestra e la bontà del suono, ma senza decadentismi. Piano piano, in seguito, era venuto innamorandosi del suono, e questo probabilmente gli era successo in sala registrazione. Man mano che la tecnologia progrediva, lui lavorava sempre più per il documento sonoro che di lui i posteri avrebbero mantenuto. E che, naturalmente, gli dava subito un ritorno economico. Per questo non poteva lavorare con tante orchestre, né con orchestre mediocri. Le due migliori, a Berlino e Vienna, portate a vertici di virtuosismo inarrivabili da altri. Con tutto ciò, sarebbe sbagliato pensare che nell’ultima parte della vita ci abbia dato letture superficiali e meramente virtuosistiche. Karajan pensava che la cura del suono coincidesse con l’approfondimento interpretativo, e ne fosse il veicolo. Del resto, a teatro o in sala da concerto la resa era anche superiore, a dimostrazione che la perfezione non era acquisita solo con il supporto del tecnico del suono.

    Negli ultimi anni della vita le interpretazioni di Karajan furono anche segnate dal suo personale dolore fisico, che gli spettatori credevano di cogliere in certe sfumature interpretative. Certamente l’infermità aveva inciso sul gesto direttoriale, che da ampio e autorevole (diciamo toscaniniano) si era fatto molto più essenziale, a volte virtuale. Per lunghi periodi, Karajan monitorava l’orchestra con lo sguardo e col movimento delle dita, più che con le braccia e la bacchetta (che non sempre usava). Il brano a cui si riferisce il link appartiene a un concerto wagneriano dato pochi mesi prima della morte. Specie a partire dai 5 minuti e 30 il fenomeno si vede molto bene, e, a modo suo, commuove: anche perché quello che si ascolta è sublime. (La cantante è Jessye Norman, nei suoi anni migliori).


    https://youtu.be/lLWUp2ifx4M

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    1. Grazie. Bisogna tenere conto nel giudicare l'atteggiamento di K. verso il nazismo che sua moglie era ebrea.

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    2. Mah. L'unico direttore che, senza essere ebreo, fu davvero antinazista è Erich Kleiber, noto soprattutto per una fortunatissima scopata.

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    3. Non ho detto che K. Fosse antinazista

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