Seconda parte.
Keynes, nelle sue considerazioni sulle conseguenze economiche del trattato di Versailles, scrive che l’entità dei danni materiali prodotti nei territori invasi dei tedeschi fu oggetto di “enormi esagerazioni” in sede di valutazione. Vero è che la quantità di lavoro umana necessaria per restaurare le devastazioni prodotte dalla guerra sembrava incalcolabile, e ciò non poteva non provocare forte risentimento. Tuttavia, precisa Keynes, “Alcuni governi non si sono vergognati di sfruttare alquanto questi sentimenti”.
Per esempio, egli testimonia come in Belgio l’area effettivamente devastata corrispondeva a “un’esigua porzione dell’insieme”. La terra in Belgio “è in grandissima parte ben coltivata come prima”. Eppure le richieste alla Germania di risarcimento “furono superiori al totale della ricchezza prebellica stimata dell’intero paese”.
In Francia invece la distruzione fu di tutt’altro ordine di grandezza. I diritti della Francia in materia di risarcimenti furono immensamente più ingenti, “ma anche qui ci sono state forti esagerazioni, come hanno osservato gli stessi statistici responsabili francesi”, scrive il lord inglese.
Insomma, a Versailles fu imbastito un trattato talmente illogico e squilibrato che poi risultò controproducente anche per chi avrebbe dovuto trarne vantaggio.
La consegna della flotta mercantile tedesca portò l’industria navale dei Paesi ex nemici sull’orlo della rovina; le forniture forzate di carbone tedesco provocarono disoccupazione in Francia e, in Inghilterra, il più grande sciopero minerario della sua storia. Non solo, il rimborso delle riparazioni, per quanto riguarda l’Austria, nei primi anni Trenta innescherà squilibri monetari con fallimenti bancari a catena.
A seguito dell’inottemperanza tedesca a pagare le rate stabilite (per l’ammontare complessivo pari a oltre 46.000 tonnellate d’oro, con l’interesse del 6%), nel gennaio 1923 la Francia e il Belgio procedevano all’occupazione della Ruhr (bacino minerario e zona industriale di rilevantissima importanza per la ripresa dell’economia tedesca), che proseguì fino al 1924, quando fu accolto il piano Dawes sulle riparazioni, che prevedeva il pagamento secondo rate crescenti ma senza definire un ammontare complessivo (*).
A trarne effettivamente vantaggio in termini politici fu il nazionalismo, non solo germanico, che ancora una volta si accingeva a rappresentare una delle cause funeste chr minarono la pace in Europa. Tuttavia, specie nelle sue forme estreme, per accrescersi e imporsi come forza dominante, il nazionalismo ha bisogno che maturino e persistano determinate condizioni, altrimenti rimane sottotraccia, rancoroso, cattivo, ma marginalizzato.
La Germania, dopo gli anni terribili dell’iperinflazione (alcuni abili speculatori ammassarono fortune enormi e i debiti di finanzieri ed imprenditori furono polverizzati), della disoccupazione di massa, della fame, dei disordini, si stava riprendendo. Berlino diventava lussuosa, spensierata, uno dei centri del mondo, pur in presenza di ampie sacche di miseria resistenti. Versailles apparve sempre più lontana, anche se non dimenticata, e la vendetta restò materia di propaganda di forze politiche residuali.
Le elezioni del 1928, avevano visto il Partito socialdemocratico alle elezioni per il Reichstag segnare quasi il suo massimo storico: 153 seggi su 491; il Partito popolare 79, quello di Centro 161, il Partito comunista 54; i nazisti avevano raggranellato non più di 12 deputati. Il figlio del fu Aloys Schicklgruber non aveva alcuna chance, sarebbe rimasto per qualche tempo un bizzarro oratore da birreria e poi più nulla.
Va però tenuto conto che in ogni epoca vi sono processi che si svolgono sotto la superficie delle cose per poi esplodere improvvisi. Che cosa accadde dal 1928 al 1931, quando i nazisti superarono i 100 seggi, e poi nel luglio dell’anno dopo li raddoppiarono e più? Non fu un fatto nuovo a determinare tale successo, se non nella sua dimensione straordinaria: la crisi finanziaria dell’autunno del 1929 e il seguito di stagnazioni, fallimenti e collassi di ogni tipo, stanchezza e disperazione (**).
La crisi era incomincia negli Stati Uniti, i veri vincitori della guerra mondiale. L’edificio del benessere diffuso crollò da un giorno all’altro. Una lezione che andrebbe meditata attentamente anche oggi.
La speculazione finanziaria e la dilatazione del credito negli anni Venti raggiunse livelli folli. Nel 1929, nel momento in cui le banche, gravemente scosse, si videro costrette a revocare i crediti su larga scala e a ritirare i fondi prestati all’estero, la crisi dilaga nel mondo intero, ma ognuno vide il proprio caso, così come succede ora con la pandemia virale laddove ognuno bada anzitutto a se stesso.
La Germania fu colpita dalla crisi troppo presto, nel senso che non aveva ancora consolidato abbastanza i propri conti e la propria economia, mentre la repubblica, fondata sulla Costituzione scritta a Weimar, non aveva ancora fatto acquisire piena consapevolezza delle realizzazioni politiche ed economiche degli ultimi anni.
È in questa situazione che il campanilismo scontento si fa strada, come sempre foriero di pericolose conseguenze. Cercare le colpe degli eventi non in se stessi ma negli altri diviene un fatto normale, perché ciò che accade a ognuno sembra immeritato. Fu quello il momento dei profeti, dei predicatori d’illusioni, di paradisi promessi a stretto giro.
Nella rete delle illusioni e facili soluzioni caddero in molti: salariati e padroni, piccola e grassa borghesia, persone sagaci e spiriti semplici, gli onesti e la canaglia, gli apolitici e i silenziosi, ossia quelli che in genere più si fanno trascinare da una nuova idea, posto che i vecchi partiti non hanno nulla da offrire.
Non bastano gli avvertimenti, gli allarmi dei più avveduti, perché non basta aver ragione, bisogna essere in grado di farla riconoscere. Ma come si può quando la situazione si fa via-via più confusa e disperata? Anche adducendo i migliori argomenti del mondo, a prevalere saranno sempre le esagerazioni e le menzogne, con la loro forza di seduzione.
Le crisi, come già le guerre, vediamo oggi le pandemie, procedono per proprio conto; loro oggetto è anzitutto l’economia, che disastrano a loro capriccio. Le conseguenze diventano sociali e poi politiche, fino ad assumere rilevanza storica speciale.
Possiamo ingannare noi stessi fino alla catastrofe. Non importa se sarà economica, ecologica o bellica, se sarà molte cose insieme. Sappiamo che quasi tutto è possibile sotto il cielo, perfino che non accada nulla e tutto si salvi. Alziamo le nostre personali e collettive barriere difensive, ma prima o dopo arriva il momento di verità, per suscitare in noi un senso d’impotenza e di disperazione.
(*) L’art. 428 del Trattato di Versailles stabiliva l’occupazione alleata di territori tedeschi ad ovest del Reno, a titolo di garanzia dell’esecuzione del Trattato da parte della Germania. Tale occupazione, realizzata da Belgio, Francia e Gran Bretagna, si sarebbe protratta per un periodo di quindici anni, nel corso dei quali sarebbe stata gradualmente ridotta a condizione che la Germania eseguisse gli obblighi derivanti dal Trattato.
(**) Al piano Dawes si sostituì dal 1° settembre 1929 il piano Young, che riduceva il debito di un 20% e lo suddivideva in rate da pagare in 58 anni (l’ultima nel 1988); inoltre, divideva il pagamento annuale (nell’ordine dei 473 milioni di dollari) in due parti: una parte senza condizioni, per un terzo della somma, e la restante parte che poteva essere posposta. Data la crisi scoppiata di lì a poco, nel 1932 la Conferenza di Losanna propose di ridurre le riparazioni alla somma simbolica di tre miliardi di marchi. L’accordo non fu mai ratificato per l’opposizione degli Stati Uniti. La Finlandia fu l’unica a pagare integralmente il suo piccolo debito. Nel 2010 la Germania estinse i suoi debiti di guerra con un’ultima rata.
seppur suggestivo il confronto non regge per via della demografia. Buona parte della crisi attuale e delle sue risoluzioni in apparenza strane (mettersi a catenaccio sotto di 10 gol), dipende da questa, ma in senso opposto all'espansione degli anni 30. Hitler si suicida da under 60.
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