giovedì 31 ottobre 2019

Buoni o cattivi



Riesco ancora a stupirmi su come sia possibile trasmettere nella tv pubblica un documentario, della durata di circa un’ora, riguardante il crollo della borsa di New York dell’ottobre 1929 e la crisi economica e sociale che ne seguì, senza mai pronunciare la parola “capitalismo” (*). Ecco che la storia non è più il prodotto dall’azione di forze oggettive, ma ogni evento viene collocato sotto il segno del miracolo o della catastrofe, dell’azione degli individui di volta in volta buoni o cattivi. Buoni investitori, cattivi speculatori; Herbert Hoover all’inferno e Franklin D. Roosevelt in paradiso.

Dal  momento che i responsabili di questi programmi televisivi, così come gli storici ed economisti intervistati, non posso essere accusati di non conoscere che cos’è la censura, né di essere incapaci di distinguere ciò che è semplicemente falsificazione, si deve dedurre che questa gente è entrata in una sorta di orbita autonoma, vorrei dire autistica, e senza imbarazzo vuol stabilire che la società capitalistica è in grado di superare le proprie contraddizioni ed è il solo sistema praticabile. Vedremo ancora per quanto e a quali costi.


Il programma si chiude con una citazione dell’economista borghese John Kenneth Galbraith: “Nessuno fu responsabile del grande crollo di Wall Street, nessuno manovrò la speculazione che lo precedette, entrambi furono il prodotto della libera scelta e della libera decisione di migliaia di individui; questi non furono condotti al macello, vi furono spinti dalla latente follia che ha sempre travolto la gente presa dall’idea di diventare ricchissima”.

L'approccio "scientifico" borghese alle contraddizioni proprie del sistema (non solo di quelle economiche) funziona così. In tal modo la crisi perde il carattere capitalistico, oggettivo, per assumerne uno soggettivo, “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana, la volubilità degli attori sulla scena del mercato, e perciò non si tratta di cambiare sistema economico, ma di cambiare la testa degli uomini!


(*) Dal sogno all'incubo. America 1929, Rai Storia.


9 commenti:

  1. I pupari hanno allestito un grande Truman show, facendo credere ai pupi di poter utilizzare il libero arbitrio.

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  2. in realtà entrambi gli approcci (marxista e "borghese") hanno un che di artificioso nella misura in cui ritengono che la crisi sia un evento che è possibile in linea di principio scongiurare. Sarebbe molto più umano e ragionevole accettare la crisi come un elemento ineliminabile in tutti gli ambiti della vita umana (biologico, affettivo-relazionale, economico etc) e concentrarsi sui mezzi per limitare i danni una volta che avvenga.

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  3. Nessuno parla più di Galbraith, mentre qualche decennio fa era sulla cresta dell'onda. Penso che l'oblio sia giustificato: però non è vero che G. neghi che il capitalismo abbia in sé il rischio della depressione. Nel libro specificamente dedicato al tema (Il Capitalismo Americano,1952, prontamente tradotto, guarda caso, dalle Edizioni di Comunità) dedica un capitolo alla Grande Depressione, e dice che la depressione è "l'unica minaccia di dimensione potenzialemente rivoluzionaria che il capitalismo [abbia] di fronte" (edizione del 1965, Etas Kompass, pag.88).
    Ecco: per tua colpa, e per non essere accusato di documentarmi su Wikipedia, sono salito in cima alla scala, e ho tirato giù dallo scaffale più alto un testo che non pensavo di riaprire.
    Adesso mi tocca rimetterlo a posto, a rischio di cadere.

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    1. come vedi le citazioni lor signori le sanno scegliere bene.
      quel genere di libri li metto nel primo scaffale, quello in basso. nell'ultimo in alto ho le opere complete di M-E. Il sali-scendi quotidiano mi serve per tenermi in forma.

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    2. Credevo le sapessi a memoria.

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    3. Galbraith (come tutti gli economisti borghesi) non può negare un’evidenza solare come la crisi, però egli la crisi non la fa dipendere da cause oggettive, ossia dalle contraddizioni immanenti il modo di produzione capitalistico; la crisi per Galbraith avviene nella sfera della circolazione, è fatta dipendere dall’azione scriteriata dei singoli individui, dalla loro predisposizione all’arricchimento per mezzo della speculazione. In alternativa alla crisi per motivi speculativi, e cioè in altri scritti, Galbraith fa dipendere la crisi dallo squilibrio classico tra produzione e consumo. Più in là non si va.

      Vediamo in sintesi come stanno effettivamente le cose.

      Nel modo di produzione capitalistico la contraddizione tra produzione e consumo assume effettivamente una rilevanza di primo piano, poiché la crisi di sovrapproduzione è anche “crisi di sottoconsumo”, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, non la necessità.

      Le contraddizioni operanti nella sfera del consumo, infatti, sono indotte da quelle interne alla sfera della produzione. Di conseguenza la genesi della crisi va ricercata nella produzione di plusvalore, e non nella sua realizzazione. Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella circolazione, conduce inevitabilmente alle interpretazioni della crisi come, appunto, crisi di sottoconsumo. Questa tesi alimenta l’illusione che sia possibile risolvere la crisi intervenendo sulla sfera del mercato e degli investimenti, in definitiva agendo sul movimento del denaro, dei tassi e sulla fiscalità (Piketty, e altri).

      In realtà, la crisi per cause di sovrapproduzione (o di sproporzione tra le diverse sfere produttive), ha la sua reale causa, in ultima istanza, nel meccanismo stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione del plusvalore per il plusvalore.

      È vero che storicamente, e cioè per il passato, le crisi di ciclo prima o poi sono state superate (magari con conflitti bellici), ma noi ci troviamo ormai in una fase avanzata dello sviluppo capitalistico in cui le crisi di ciclo rappresentano soltanto dei momenti, sempre più ravvicinati, della crisi generale, storica, che investe ogni ambito della società borghese, nel suo peculiare modo di produzione e nei suoi rapporti sociali che ne sono la rappresentazione.

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    4. è l'ora della ghigliottina

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    5. la fiscalità non è rimedio ma può precipitare la crisi non trovi?

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    6. Per la ghigliottina ci vuole disperazione di massa, che oggi non significa necessariamente "fame" in senso classico

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