martedì 22 ottobre 2019

Ideologie della crisi


Durante l’annual meeting del FMI del 15-19 ottobre (in realtà una riunione semestrale), l'ex governatore della Bank of England (BoE), Mervyn King, ha affermato a chiare lettere che il “sistema finanziario globale, attenendosi alla nuova ortodossia della politica monetaria e fingendo di aver reso sicuro il sistema bancario, si sta dirigendo come un sonnambulo verso una devastante crisi finanziaria” con “conseguenze devastanti per il sistema di mercato democratico”.

Quindi: “Nessuno può dubitare che stiamo vivendo ancora una volta un periodo di turbolenze politiche. Ma non c’è stato un confronto sulle idee di fondo della politica economica [But there has been no comparable questioning of the basic ideas underpinning economic policy.]. Ciò deve cambiare”.

Facile osservare che le “idee” del capitale, cioè di chi investe per trarre profitto e non per fare della beneficienza, sono da sempre le stesse e non possono cambiare. Né, di conseguenza, possono mutare gli orizzonti ideologici di coloro che sostengono il sistema.

*

Il FMI, dal canto suo, rileva che il ritmo dell'attività economica globale, dopo aver rallentato bruscamente negli ultimi tre trimestri del 2018, rimane debole. “Lo slancio dell'attività manifatturiera, in particolare, si è notevolmente ridotto, a livelli mai visti dalla crisi finanziaria globale” (2008).

Quali le cause secondo il FMI? “L'aumento delle tensioni commerciali e geopolitiche aumenta l'incertezza sul futuro del sistema commerciale globale e sulla cooperazione internazionale più in generale, influenzando la fiducia delle imprese, le decisioni d’investimento e il commercio globale”.

Nel Rapporto sulle prospettive dell’economia globale si ammette che vi è stato un accentuato rallentamento economico in paesi come la Turchia, l'Argentina e l'Iran, o anche come il Brasile, Messico, India, Russia e Arabia Saudita. Hong Kong, Corea e Singapore, “sono particolarmente esposti al rallentamento a causa delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti”. Si può aggiungere che l’area euro non se la passa meglio, a cominciare dalla Germania (per l’Italia la bassa crescita è una costante, e ad ogni modo una parte significativa della nostra manifattura dipende dagli ordinativi tedeschi). In buona sostanza “Le economie dei paesi avanzati continuano a rallentare poiché esposte al rallentamento dell’economia cinese”, sostiene il FMI.

Insomma, tutta “colpa” della Cina e in subordine degli Stati Uniti che si stanno facendo la guerra.

In queste affermazioni c’è del vero, senza dubbio, ma si riscontra anche una reticenza di base. Anzitutto bisognerebbe chiedersi qual è il motivo profondo che provoca le tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, motivo che riguarda senz’altro la lotta per l’egemonia, ma questa stessa lotta sui dazi e il rientro delle produzioni negli Usa ha evidentemente ragioni più profonde. 

Nonostante tutti i paludati discorsi gergali sulle banche e il sistema finanziario, alla fine della canzone, chi in un modo e chi in un altro, siamo tutti d’accordo che la contraddizione centrale dell’economia capitalistica sia da rintracciarsi nel rapporto tra produzione e consumo.

Non proprio tutti, per esempio io non sono d’accordo. Per ciò che vale, ovviamente. La causa della crisi viene individuata nella sovrapproduzione di merci e conseguentemente dall’impossibilità a realizzarsi in seguito al sottoconsumo, vale a dire alla limitatezza di consumo. Un tempo si era giunti a teorizzare persino che gli schiavi moderni (cioè lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro) consumino meno di quanto producono per loro mera propensione psicologica alla parsimonia, quasi per dispetto. Il keynesismo, cioè il delirio teorico borghese, ci ha regalato anche queste perle (*).

Nel modo di produzione capitalistico la contraddizione tra produzione e consumo assume effettivamente una rilevanza di primo piano, poiché la crisi di sovrapproduzione è anche “crisi di sottoconsumo”, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, non la necessità (non si studia la dialettica ritenendola un’astrusità, faccenda di perditempo).

Le contraddizioni operanti nella sfera del consumo sono indotte da quelle interne alla sfera della produzione. Di conseguenza la genesi della crisi va ricercata nella produzione di plusvalore, e non nella sua realizzazione. Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella circolazione, conduce inevitabilmente alle interpretazioni della crisi come esito di sottoconsumo, di scarsa “propensione”. Questa tesi alimenta l’illusione (questa sì necessaria!) che sia possibile risolvere la crisi intervenendo sulla sfera del mercato e degli investimenti, in definitiva agendo sul movimento del denaro, dei tassi e sulla fiscalità (gli sciocchi alla stregua di Piketty e di tutti quelli che hanno “soluzioni” pronte all’uso).

La crisi per cause di sovrapproduzione (o di sproporzione tra le diverse sfere produttive), ha il suo reale motivo, in ultima istanza, nel meccanismo stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione del plusvalore per il plusvalore. E nessuno può farci nulla, se non soccorrere con pannicelli caldi, ossia con dazi, nuove tasse, patrimoniali, lotta a questo e quello.

(*) Tra parentesi, anche la cosiddetta teoria della sproporzionalità appartiene al novero delle concezioni che individuano la causa della crisi nella sola sovrapproduzione di merci. Per i sostenitori della teoria della sproporzionalità, la crisi dell’economia capitalistica deriverebbe da uno sviluppo sproporzionato dei diversi settori della produzione sociale.


1 commento:

  1. https://www.ilsole24ore.com/art/non-solo-cile-perche-sud-america-e-polveriera-ACWLodt

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