venerdì 23 marzo 2018

Qualunque cosa succeda


Quando il 3 febbraio 1991 il Pci s’è trasformato in Pds, non ha rinunciato solo al nome, ma a un progetto di società, che in quel nome era, seppure ormai solo formalmente, rappresentato. Ciò non è avvenuto esattamente in tale frangente, maturava bensì da lunga pezza. Già nel 1956 furono gettate le premesse teoriche e programmatiche per la politica degli anni successivi.

Se andiamo agli anni in cui avviene tale passaggio (1989-1991), troviamo la stessa classe operaia in crisi con la fine della grande fabbrica e dell’operaio professionale, cacciato ai margini del processo produttivo dalle nuove tecnologie e tecniche di produzione, trasformato, anche politicamente, in un’appendice marginale del processo di produzione capitalistico.

Il Pds assumeva non solo le fisionomie di un partito riformista senza popolo, ma anche, ripeto, senza progetto, salvo quello della gestione dell’esistente, del potere per il potere, dell’obbedienza alle direttive della UE e del Fondo monetario internazionale che definiscono gli ambiti e i vincoli dei processi economici e politici dei singoli paesi (*).

Finiva, anche formalmente, il partito di lotta e di classe, il controllo ideologico e politico sul “popolo della sinistra”. Il partito si qualificava espressamente quale rappresentante dei ceti borghesi o piccolo-borghesi. Con la successiva trasformazione in Pd, il partito si americanizzava nel nome e scimmiottava le primarie, permettendo a un personaggio mediatico di diventare l’asso pigliatutto, insieme capo del partito e del governo.

Renzi si è rivelato ciò che è sempre stato, un detestabile vanesio, ma può tutt’ora contare sulla cerchia di fedelissimi e sulla truppa che egli ha scelto e fatto eleggere. Psicotico e vendicativo, non è peregrina l’ipotesi che possa cercare il pretesto per farsi il suo partitino personale. Ben prima del 4 marzo scrivevo che il Pd è un partito in estinzione, senz’anima e progetto. Siamo alla resa dei conti finale, qualunque cosa succeda.

(*) Quando mai il processo d’interdipendenza tra Stati disuguali, sotto l’egemonia del capitale tedesco-americano, può essere inteso come un movimento tendenziale verso l’integrazione? Il controllo dei meccanismi economici e politici della UE è l’essenza entro la quale si colloca la simulazione dell’integrazione. I rapporti di forza tra gli Stati si riflettono nell’articolazione del sistema delle disuguaglianze e le moltiplica, poiché questo è l’interesse oggettivo degli anelli più forti della catena. Il fatto stesso che non esista una politica fiscale comune ne è l’esempio più eclatante e che consente alle multinazionali di fare ciò che vogliono.

3 commenti:

  1. secondo me in italia la presenza statale in economia è stata un pò troppo massiccia per parlare di un PCI-PDS-DS-PD riformista, almeno non nel senso del termine sviluppato nel nord europa dove lo scambio tasse/servizi-diritti nasce dal chiaro e indiscusso potere economico detenuto dalla società civile borghese e non dallo stato: come si nota dai risultati elettorali qui da noi non è ancora molto omogenea la diffusione del concetto

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    1. beh, abbiamo una bella storia tutta nostra anche da quel lato

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  2. CORTIGIANI, VIL RAZZA DANNATA!
    Il “Rapporto sull’unione economica e monetaria nella Comunità europea”, noto come rapporto Delors, consegnato ai ministri dell’economia e delle finanze al Consiglio europeo di Madrid del 28-29.6.1989, proponeva una “tabella di marcia” articolata in tre fasi per la realizzazione dell’Unione. La prima fase era intesa come preparatoria: completamento del mercato interno, riforma dei Fondi strutturali e loro allargamento per ridurre le disparità regionali, completa liberalizzazione dei movimenti di capitale (v. libertà di circolazione dei capitali e libertà dei pagamenti), rimozione di tutti gli ostacoli alla integrazione finanziaria. La seconda fase doveva realizzare un elevato grado sia di convergenza tra le politiche economiche (con l’introduzione di regole precise per limitare i deficit nazionali), monetarie ed i tassi di inflazione, sia di stabilità dei tassi di cambio e doveva concludersi con la costituzione del SEBC (SEBC) e dell’IME che doveva sostituire il FECOM. Il raggiungimento di questi obiettivi avrebbe dovuto consentire di passare alla fase finale dell’unione (terza fase), caratterizzata dall’uso dell’ECU come unica moneta e da una politica comunitaria comune e con una banca centrale europea (poi realizzata con la BCE) ormai artefice di questa politica. Politica che potè essere perseguita dal 1966 quando De Gaulle, non volendo sottostare agli USA, uscì dalla Nato costituendo la Force de frappe. Prima che il Rapporto venisse votato, il 9 novembre 1989 cadde il Muro di Berlino, il 3 ottobre 1990 avvenne la Riunificazione tedesca e il 25/12/1991 si dissolse l’URSS.
    Dopo questi sconvolgimenti, il 7 febbraio 1992, fu firmato il trattato di Maastricht che del Rapporto Delors non solo conteneva ben poco, ma , grazie anche alla presenza nella UEM della GB, quinta colonna statunitense, segnava la fine di quella UE che avrebbe potuto rappresentare un concorrente politico ed economico per l’egemonia USA.
    Sull’onda lunga degli anni ’80 improntati al liberismo thatcheriano, all’edonismo reganiano, alla Milano da bere craxiana e gli accadimenti sopradetti, che comprendono, il 31 marzo 1991, lo scioglimento del patto di Varsavia, ma non della NATO, s’innesta la contrastata nascita del PDS il 3 febbraio 1991, che, continuando lungo il piano inclinato della captatio benevolentiae USA, divenne DS, Ulivo, PD, confermandosi vieppiù la Cappadocia dell’Impero(vedi guerra alla Serbia, iniziata il 24 marzo 1999, senza l’autorizzazione dell’ONU). Naturalmente è solo per caso che il 24 aprile 1999 la NATO cambia lo scopo della sua costituzione: da Difensivo ad Offensivo. Ottenendo un triplice risultato: continuare a mantenere l’egemonia militare in Europa(complice l’allargamento della UE e della Nato a 10 paesi dell’EST), bloccare il processo di costruzione della stessa UE e, ultimo, ma forse il più importante, mettere fuori gioco l’ONU.

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